Non chiamateli bamboccioni: i giovani italiani tra precarietà, coraggio e voglia di futuro

Etichettati come pigri, in realtà lottano contro stress, insicurezze e diseguaglianze. Serve una rete sociale che li sostenga, non un Paese che li lascia indietro

Marco ZatterinMarco Zatterin

Ci sono domande che contengono la risposta. Una è quella che solleva il dubbio sull’affidabilità del luogo comune che etichetta una buona parte dei giovani come “bamboccioni”, perché le osservazioni suggeriscono che non sia proprio così. Non sono pigri e sdraiati, non la larga maggioranza, perlomeno. Soffrono e sfidano una società che si è fatta meno aperta e generosa, faticano fra le diseguaglianze crescenti e i salari svalutati, i contratti troppo precari, il costo delle case alle stelle. Ripetere che prediligono il divano all’attività è un rischio, può tramutarsi in un alibi per non fare abbastanza. Il che sarebbe letale. Perché un Paese che non cura i suoi ragazzi, prende a schiaffi il proprio futuro.

Metà di quanti hanno fra 18 e 35 anni denuncia che l’emozione ricorrente peggiore è lo stress, seguita a una lunghezza dall’ansia (sondaggio Ipsos). Il 68% dei non ancora trentenni, quando pensa al lavoro, prova insicurezza e paura (Osservatorio Jobiri): uno su tre ragiona tutti i giorni sull’inevitabilità del fallimento. Ma pochi si arrendono. Reagiscono come possono, anche molto spesso con la fuga. Fra il 2014 e il 2023, 700 mila giovani italiani sono partiti per cercare fortuna all’estero: un quinto erano freschi di laurea (Banca d’Italia), pochi ritornano. Se uno ha la forza di mollare casa e famiglia non può essere uno spiaggiato. Al contrario, deve avere un coraggio da leone. È gente che non bisognerebbe perdere.

«Chi rifiuta di cambiare città non lo fa per pigrizia, ma perché dovrebbe bruciare due terzi di stipendio solo per l’alloggio», avverte Nando Pagnoncelli, presidente di Ipsos. Nei grandi centri gli affitti per studenti e neo-impiegati sono schizzati a livelli spropositati, lo stipendio e le aspettative non incentivano la mobilità. Secondo l’analisi della Commissione Ue, la partecipazione dei giovani al lavoro, soprattutto al Sud, permane «strutturalmente bassa». Essa riflette una generalizzata formazione insufficiente che non crea le competenze richieste da chi offre i posti. Ne consegue la bassa produttività del sistema italiano e uno scoramento diffuso.

A fine 2024 soltanto il 40 per cento dei giovani sotto i trent’anni era impegnato, a fronte di una media europea del 55,9 (Commissione Ue). Il 39,4 per cento di questi aveva un contratto a termine, certo non la migliore delle prospettive. Poste le paghe ridotte, e le evidenti difficoltà sociali di una società in declino demografico, non sorprende che i Neet - chi non studia, non lavora e non si forma - siano dalle nostre parti addirittura il 15 per cento (media Ue: 11). L’inquietudine in Italia imperversa. La prima causa? «I social media e un’eccessiva esposizione al digitale», confessa il 41 per cento di chi si esprime (Ipsos).

Se invece che puntare il dito si ritessesse la rete sociale, la storia potrebbe essere riscritta. Mentre il Paese invecchia, bisognerebbe utilizzare meglio il non poco capitale umano che abbiamo, con la riforma dell’Istruzione, adeguando i salari, intervenendo sulla formazione, per poi collegare con sapienza scuola e imprese, con tagli fiscali. È necessario investire nei primissimi anni di vita e socializzare i costi dei figli che gravano perlopiù sulle donne. Bisogna sostenere i ragazzi, accompagnarli, farli sentire importanti come sono, inondarli di stabilità, non metterli con le spalle al muro. I bamboccioni sono meno di quel che sembra e si dice. E anche loro, più che di etichette, hanno bisogno di opportunità chiare.

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