Quei coltelli diventati oggetto cult dei giovani che vivono da clandestini civili
Crescono i delitti consumati con il coltello, l’ultimo nella notte di domenica fuori da una discoteca in provincia di Treviso. Il vivere velocemente ha frantumato le modalità associative dei giovani: la società si impegni per placare l’ansia degli inesistenti, perché non accettati


Crescono i delitti di coltello, ci dicono le cronache. In tutta Italia la lama pare essere un oggetto cult tra i giovani. Mentre la contabilità dei morti affiora, quello che non sappiamo è l’estensione del fenomeno. Le lame sono davvero diventate lo strumento assoluto per non discutere ma per colpire e dissolvere l’avversario?
Viene da credere che debba esserci una correlazione tra questi eventi delittuosi e la crescente aggressività che nelle giovani generazioni s’accende troppo spesso in forma distruttiva.
C’è stata una trasformazione nei decenni del modo, mai facile, di relazionarsi dei giovani. Nelle discoteche che, arcaicamente, frequentavo, la rissa, sempre alimentata dall’alcol, non era così frequente e finiva in esibizioni muscolari a colpi di spinte e pugni. C’era una generale lentezza, nei suoni, nei movimenti, nella violenza stessa.
Le trasformazioni sociali, lo ripeto sempre, hanno agito velocizzando il vivere e frantumando le modalità associative dei giovani. Allontanati, sistematicamente, dalla vita politica o dall’aggregazione per delle finalità ampie, si sono dispersi in piccoli coacervi, molti dei quali tenuti assieme da contingenti e volubili aspirazioni. Prima di tutte quella di scaricare l’ansia del vivere senza sicurezze, senza strumenti per comprendere il futuro.
Una parte non piccola delle giovani generazioni, soprattutto negli strati sociali più fragili, non si sente inclusa nella società e nelle sue dinamiche. Sono soggetti che vivono in apnea durante la noiosa quotidianità ed emergono catalizzandosi con altri e i luoghi fisici dove potersi esibire sono le frattaglie del vivere collettivo: qualche piazza, qualche viuzza, qualche centro commerciale, le discoteche. Sono dei clandestini civili a cui vengono concessi solo angoli defilati, carceri senza sbarre.
Luoghi che producono un’illusione di potenza auto-proclamata, carte di identità costruite con i caratteri tipografici rubati al mondo dei videogiochi se non dei social. Sono luoghi in cui convincersi di vincere l’ansia con la chimica sintetica o con l’alcol, bombardati dai decibel, sovraffollati come in barconi che partono da numeri civici verso un salvifico altrove inesistente.
Dentro a questa agitazione emotiva, piccoli manipoli recitano come combattenti di guerre immaginate, copiando però quel clima bellico che, quotidianamente, respirano da ogni sorta di media. Guerrieri finti plasmati da una cultura di guerrieri veri che, oramai, non vogliono più smettere. Effetti collaterali di tempi cupi.
In questi giovani brucerebbe la stessa energia che si vede in altri giovani quando corrono, volontari, a spalare il fango dopo le inondazioni; quando sfilano a difesa dell’ambiente; quando protestano contro i femminicidi, quanto si commuovono per i giovani uccisi a pistolettate da altri giovani; quando vanno a veder passare il feretro di un pontefice speciale.
Quell’energia costruttiva, affinché non svanisca dopo ogni evento, necessiterebbe però che la società dimostri la manifesta volontà di includere i giovani nel suo funzionamento. Che non si limitasse a fotografarli, di tanto in tanto. Che affidasse loro parti da protagonisti e, magari, anche da regista. I giovani sono il problema se non li educhi a essere una soluzione. Allora, forse, l’ansia degli inesistenti, perché non accettati, calerà e il coltello perderà di fascino: strumento troppo banale per un giovane se viene incluso, come risorsa preziosa, nel mondo degli adulti.
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