Fine vita, i princìpi di una morte dignitosa

La nuova legge non potrà ora impedire la concreta attuazione di quanto riconosciuto legittimo dalla Corte perché non è omogenea su tutto il territorio nazionale la disponibilità delle cure palliative

Vincenzo Milanesi

Sulla base di quanto sinora emerso, la legge sul fine vita proposta dal governo di destra-centro potrebbe presentare aspetti di notevole criticità, dal punto di vista bioetico, e forse anche rispetto alle sentenze della Corte costituzionale in proposito. Che si è pronunciata fissando paletti, ma dando nel contempo (implicitamente nella forma, ma chiaramente nella sostanza) precise linee guida coerenti con i princìpi costituzionali di cui essa è custode.

La nuova legge, dunque, non dovrà pronunciarsi (come fa la legge della Regione Toscana) sulla liceità o meno del “suicidio assistito” in quanto tale, perché già ritenuto praticabile dalla Corte quando si presentano le ormai ben note condizioni: malato con patologia irreversibile con un esito infausto certo, con sofferenze giudicate non tollerabili dal paziente a livello fisico o psichico, con dipendenza da trattamenti di sostegno vitali, in presenza di capacità del paziente di prendere decisioni con piena lucidità e consapevolezza.

La legge non potrà ora impedire la concreta attuazione di quanto riconosciuto legittimo dalla Corte perché non è omogenea su tutto il territorio nazionale la disponibilità delle cure palliative. Che è giusto e doveroso offrire al paziente, in quanto previste all’interno dei Livelli essenziali di assistenza). Purtroppo sappiamo che i Lea non sono accessibili uniformemente sul territorio nazionale anche per altre patologie.

Quindi il governo dovrebbe impegnarsi, insieme alle Regioni, a rendere il più possibile accessibili le cure palliative, ma non certo trincerarsi dietro questa situazione, da modificare, per negare quanto riconosciuto dalla Corte, dato anche che le cure palliative non possono essere considerate sempre efficaci, aprioristicamente, in tutti i casi.

Mettere in alternativa le cure palliative al “suicidio assistito” sempre e comunque, al di là della libera scelta del paziente, appare eticamente (e forse anche giuridicamente) poco sostenibile.

Così come lo sarebbe imporre la cosiddetta “sedazione profonda” per “lasciar morire” il paziente in stato di incoscienza: non può essere considerata sostitutiva della volontà espressa dal paziente di morire con dignità rimanendo lucido e cosciente. Assurdo sarebbe poi estromettere il Servizio sanitario nazionale dalle pratiche relative al “suicidio assistito”, riconosciuto dalla Corte, seppur a ben precise condizioni. È giusto consentirlo solo a chi può pagare la clinica privata in Italia, invece che andare in Svizzera?

Alla legge spetterà dunque non contraddire le sentenze della Corte stessa assicurandone invece la corretta applicazione, prevedendo tempi certi e procedure uniformi a livello nazionale per la verifica della presenza delle condizioni, i paletti, indicati dalla Corte stessa.

Sarà compito di un’equipe multidisciplinare far questa verifica che riguarda dati di fatto, senza scomodare un Comitato etico nazionale per decidere al posto del paziente se in quel singolo caso è, appunto, lecito autorizzare il “suicidio assistito”, impegnandosi in opinabili giudizi di valore che andrebbero a contrastare, in quanto tali, il giudizio di liceità della Corte, giuridico ma anche etico, espresso contemperando tra loro princìpi costituzionalmente garantiti. 

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