Fine vita, giusto avere compassione anche di noi stessi

La teologia stessa pare più aperta di quanto si pensi su un tema come il fine vita. Ma il Parlamento pare in affanno, mentre la Corte Costituzionale chiede da tempo di legiferare

Vincenzo MilanesiVincenzo Milanesi
I manifestanti a Venezia alla consegna delle firme per la legge sul fine vita
I manifestanti a Venezia alla consegna delle firme per la legge sul fine vita

Certo il tema è tra quelli più difficili da affrontare da parte della politica. Ma colpisce che il Parlamento sia così visibilmente in affanno, dopo anni di colpevole inerzia, sulla legge sul cosiddetto “suicidio assistito”. Sul quale peraltro ormai da troppo tempo la Corte Costituzionale chiede di legiferare.

Non dovrebbe preoccupare i partiti il consenso degli elettori, dato che ormai tutti i sondaggi dicono che in larga maggioranza anche i cittadini italiani sono favorevoli ad una legge che autorizzi il suicidio medicalmente assistito in presenza di condizioni ben definite, come quelle indicate dalla Corte Costituzionale. E allora da dove vengono questi freni tanto robusti al varo di una legislazione in proposito? Da molte parti si sostiene che è il cosiddetto “mondo cattolico” a frenare, trasversale come è a tutti i partiti, obbedendo alla gerarchia vaticana.

Ma siamo davvero sicuri che una legislazione sul fine vita sia così radicalmente inaccettabile per un credente, al di là del fatto, ovviamente, che una legge dello Stato laico non obbliga nessun fedele, mentre la mancanza di una simile legge nega una possibilità a chi credente non è? Lasciando ai teologi di fare il loro mestiere, noi che tali non siamo, vediamo tuttavia che la teologia stessa pare più aperta di quanto si pensi su questo tema.

Nel Novecento, teologi come Karl Barth, pastore protestante, e Dietrich Bonhoeffer, teologo e pastore anch’egli oltre che martire nella lotta contro Hitler, ma anche Hans Küng, prete cattolico, poi privato della licenza di insegnamento della teologia dalla Chiesa romana per le sue posizioni, hanno evidenziato come nella Bibbia non ci sia un fondamento per una teologia che condanni in assoluto la scelta della privazione volontaria della propria vita da parte dell’uomo.

Mentre è assai più agevole riscontrare nel Cristianesimo una fondazione teologica della libertà responsabile per l’uomo stesso. E questo è forse il punto centrale: “la fine” della vita non può essere giudicata se non sulla base “del fine” della vita che ciascun essere umano ha il diritto ed il dovere di dare alla propria.

È forse questo il significato più profondo di quella libertà responsabile che è merito del Messaggio cristiano aver riconosciuto all’uomo: «Concedendo all’uomo la libertà, Dio ha rinunciato alla Sua potenza».

Sono parole di straordinaria forza teoretica (e forse tali anche dal punto di vista teologico) di un grande filosofo ebreo del Novecento, Hans Jonas, che lega strettamente il riconoscimento di questa libertà di scelta della propria vita e quindi anche della propria morte ad un’altra libertà che all’uomo deve essere riconosciuta, la libertà di coscienza.

Se Dio ci ha reso liberi di scegliere i fini per i quali vivere, facendoci il dono più grande che ci potesse fare, dicendoci chiaramente che siamo al mondo per esercitare responsabilmente la libertà che Lui ci ha dato, perché ci dovrebbe essere impedita la scelta in ordine alla fine della nostra propria vita, quando essa fosse diventata non più degna per noi di essere vissuta? Forse questa “teologia della libertà” finisce poi con il saldarsi con una “teologia della misericordia”, di quella “com-passione” che l’uomo deve avere per gli altri, ma anche per sé stesso, che è forse il centro del Messaggio evangelico.

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