Il fallimento dei referendum e la catena di errori a sinistra
Il mancato raggiungimento del quorum è un’ennesima battuta di arresto per il campo largo. Ma ad essere in crisi è tutto l’istituto costitutizionale del referendum

Un magro bilancio referendario, sotto tutti i punti di vista. Ci ritroviamo lontani anni luce dalla definizione del referendum come «festa della democrazia», con gli elettori che si assottigliano sempre di più. Non “semplicemente” in linea con la tendenza assai pronunciata all’astensionismo che si riscontra in ogni tipo di appuntamento elettorale, ma perfino oltre.
La percentuale dei votanti si è attestata a poco più del 30%, meno di un terzo degli aventi diritto; e quanto accaduto, mentre da una parte all’altra dell’arco parlamentare si sprecano le invocazioni di vittoria o, quanto meno – deplorevole “classico” italico – di «non sconfitta», dovrebbe indurre invece qualche riflessione seria e razionale presso tutte le forze politiche.
Le serie storiche ci ricordano che è dal 1995 che nessun referendum centra più l’obiettivo del quorum, a eccezione dell’exploit del 54,8%, nel giugno del 2011, in occasione della consultazione sull’acqua pubblica. E, dunque, la prima constatazione – obiettiva – da fare è che siamo in presenza di un fallimento dei referendari, che trascina con sé lo stesso istituto di democrazia diretta contemplato dalla Costituzione per dare voce immediata ai cittadini-elettori su questioni legislative.
La scommessa iniziale del fronte del Sì era di poter contare sull’effetto traino dello scontro sull’autonomia differenziata, che era però già stata parzialmente smontata dalla sentenza 192 / 2024 della Corte costituzionale, con l’esito della dichiarazione di inammissibilità del relativo referendum abrogativo. Venuto a mancare l’innesco per una mobilitazione più ampia, la strategia del sinistracentro è stata, in tutta evidenza, quella di puntare sulla politicizzazione dei quesiti sul lavoro, molto tecnici, e sulla polarizzazione intorno alla tematica della cittadinanza per gli stranieri.
Assai verosimilmente, neppure i dirigenti del campo (tornato) largo scommettevano in cuor loro sul raggiungimento del quorum ma, anche sull’onda dei buoni risultati delle scorse amministrative, speravano in una maggiore partecipazione che autorizzasse la narrazione di un’opposizione corposa nella società italiana, fino ai discutibili calcoli di Francesco Boccia sui numeri elettorali che avrebbero dovuto lanciare l’«avviso di sfratto» alla premier. Il tutto in linea con le critiche durissime espresse dai partiti di sinistra nei confronti del governo, e che, tuttavia, continuano a non trovare riscontro in un’adesione ampia ed effettiva su scala nazionale alle ragioni del campo progressista.
Il risultato appare, pertanto, come un’ennesima battuta d’arresto per il sinistracentro, guidato in toto dalla Cgil di Maurizio Landini, il quale ha voluto combattere una battaglia politica (e personale) assai più che sindacale, rompendo di nuovo l’unità di quella che un tempo veniva definita «la Triplice».
Egemonia supportata da Elly Schlein per motivazioni di conta interna – nella prospettiva del congresso – che, insieme all’abbraccio stretto con il M5s del non affidabile Giuseppe Conte (palesemente impegnato in partita altrettanto personalistica), continua a produrre per il Pd più problemi che soddisfazioni. Ne ha pagato, infatti, lo scotto da subito l’idea – in realtà molto civile, e normale – di un’acquisizione della cittadinanza più inclusiva per gli stranieri presenti sul territorio nazionale, penalizzata per giunta dal maggior numero di “No” fra i votanti.
Il flop referendario porta con sé anche un giudizio negativo e una bocciatura del modo di fare opposizione, ed è su questo che dovrebbero riflettere i leader delle sinistre, in grado di fare il pieno nelle piazze, ma in grossa difficoltà nel farne delle rampe di lancio per riempire pure le urne nell’orizzonte di un’alternanza di governo – e qui, a differenza di quanti insistono sulla radicalizzazione a sinistra, si pone giustappunto la questione dell’incapacità di allargare la propria platea al centro e presso l’opinione pubblica moderata.
Il governo ne esce così rafforzato, a dispetto delle sbavature e sgrammaticature istituzionali dei giorni scorsi di vari suoi esponenti di vertici, e di quel segnale di debolezza che, a ben guardare, è stata la stessa (facile) campagna per l’astensione. Inoltre, la maggioranza non può affatto guardare «in maniera rilassata» – a causa innanzitutto di parecchie inadeguate classi dirigenti locali – al voto autunnale per le regionali che coinvolgerà 17 milioni di italiani. Ma per adesso può tirare l’ennesimo sospiro di sollievo per manifesto “deficit d’opposizione”.
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