Divisioni e coraggio che manca: ecco perché l’Europa non prenderà posizione sulla distruzione di Gaza
Paesi come Francia e Spagna hanno riconosciuto lo stato di Palestina, l’Italia e la Germania bloccate da motivazioni politiche e storiche. Difficili le sanzioni


L’ultima conta dice che 151 dei 193 Paesi dell’Onu riconoscono lo Stato di Palestina. L’Europa no, non in quanto tale, sebbene lo abbiano già fatto Francia, Belgio, Spagna, Portogallo, Slovenia, Bulgaria, Svezia, Slovacchia, Polonia e Romania. La Germania, per ragioni anche comprensibili legate alla storia nazionale, esita a sfidare apertamente Israele. L’Italia non si muove perché, pur sostenendo il processo dei “due Stati”, ha motivazioni politiche (un governo di destra) e geopolitiche (il legame con Trump) che sconsigliano di procedere.
Ne consegue che, stanti queste divisioni, l’Ue finirà per non prendere una vera posizione sulla distruzione di Gaza. Col risultato di dare spago in abbondanza a chi critica la sua inazione ovvero, guarda caso, agli stessi che le impediscono di spingere in un senso coerente con quanto vorrebbe una larga maggioranza dei cittadini del Continente.
L’Ue segue il copione democratico previsto dai Trattati. Consapevole che i più fra gli europei pensano che Hamas sia un gruppo di terroristi da combattere, ma anche che l’operazione di Bibi sia andata parecchio oltre l’accettabile, l’Europarlamento ha approvato l’11 settembre una risoluzione in cui invita i Ventisette a «considerare il riconoscimento della Palestina, al fine di raggiungere la soluzione dei due Stati» (305 sì, 151 no, 122 astenuti). Lettera morta, sinora, sebbene sia un argomento più simbolico che altro.
Qualche giorno dopo la Commissione Ue ha intavolato delle proposte di sanzione contro Tel Aviv, chiedendo agli Stati di esaminarle e votarle. L’ultima parola sulle scelte a dodici stelle spetta alle capitali. E visto il dettaglio diabolico, cioè nel meccanismo legislativo, l’esito più naturale è che succeda poco o niente.
Il Team di Ursula von der Leyen suggerisce di sospendere alcune disposizioni commerciali dell’accordo Ue - Israele e auspica sanzioni nei confronti di Hamas, dei ministri estremisti e dei coloni violenti. La prima mossa deve essere adottata a maggioranza qualificata, e già si profila un blocco di Cechia e Ungheria con (al momento) Germania e Italia: difficile che avanzi se non sarà profondamente annacquata.
Il secondo passo richiede invece l’unanimità e qui Budapest ci porta lontanissimi da un’intesa. Morale: quando ci sarà da colpire Netanyahu, di dargli un calcetto appena, un gruppo di governi sfilerà la sedia all’Europa che cadrà rumorosamente, esponendosi alle critiche dei delusi che la desidererebbero più forte e al giubilo distruttivo dei nazionalisti che la vogliono debole.
In tutto questo, l’Italia è “italiana” nel senso meno eroico del luogo comune. Sulle sanzioni dell’Europarlamento, i tre partiti della maggioranza hanno seguito la formula “Quattro stagioni” esprimendo astensione (FdI), consenso (FI), negazione (Lega); divisa anche l’opposizione, col Pd favorevole e M5s contrario (perché mancava la denuncia del «genocidio»).
Per il suffragio in Consiglio, la premier Meloni appare favorevole ai provvedimenti sui singoli (quelli per cui ci vuole l’unanimità impossibile) ed è contro quelli commerciali (all’occorrenza, potrà far blocco coi tedeschi). Così, con un’adesione parziale e apparente ai piani della Commissione, Roma contribuirà comunque a non danneggiare Netanyahu. È una scelta che tiene a galla questa Italia, fiacca l’Europa, blandisce Trump. A vederla da una parte sola, può anche avere una sua legittimità politica. Basta che gli elettori ne siano consapevoli sino in fondo.
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