Un Carroccio che non trova la sua strada. Neanche a Pontida
Per la Lega un ruolo inesorabilmente subalterno a livello nazionale, inversamente proporzionale alle sparate del suo segretario che ama pontificare sull’universo mondo, dagli scenari internazionali alle questioni spicciole di bottega


Usi a obbedir plaudendo. Precettato dai Superiori Comandi (vietatissimo non esserci), il popolo della Lega ha celebrato con i consueti cori festanti il canonico rito di Pontida; ma l’ha fatto su un prato ben diverso da quello sfornato nel maggio 1990 da Umberto Bossi nel segno di una Padania ormai sepolta nell’oblìo.
Da quel pulpito, il “lider maximo” di allora e quello di adesso ne hanno sparate di tutti i colori e dimensioni, raccogliendo comunque le ovazioni a pieni decibel di una platea pronta a bersele tutte. Salvo ritrovarsi, alla prova del voto, con le mani sostanzialmente vuote.
Il copione è rimasto invariato. Al fumo dei proclami contro il resto del mondo e di sterili mobilitazioni di massa, Matteo Salvini non ha potuto accompagnare a Pontida il benché minimo arrosto: almeno per quella base del Nord che rappresenta pur sempre il suo serbatoio elettorale determinante.
Zero virgola zero su quella rivendicazione dell’autonomia che rimane una scatola vuota a otto anni di distanza dal celebratissimo referendum popolare. Idem per quella candidatura al dopo Zaia, di cui si è fatta una fiera battaglia identitaria; ma che, se sarà vinta, lo dovrà a un autentico regalo di Fratelli d’Italia, anteponendo la logica dei giochi politici di palazzo a quella dei consensi elettorali effettivi. Soprattutto, un ruolo inesorabilmente subalterno a livello nazionale, inversamente proporzionale alle sparate del suo segretario che ama pontificare sull’universo mondo, dagli scenari internazionali alle questioni spicciole di bottega.
Anche stavolta, come per il passato, i clamori & clangori di Pontida sono destinati a evaporare in poche ore, senza tradursi in voti.
Nel centrodestra, Giorgia Meloni raccoglie ormai stabilmente il triplo dei consensi di Salvini; il quale deve semmai guardarsi dalla concorrenza degli eredi di Silvo Berlusconi.
La Lega ha clamorosamente perso tutte le elezioni parziali recenti, incassando autentiche batoste in luoghi-chiave del Veneto di Zaia superstar, da Verona a Vicenza. I sondaggi delle regionali in arrivo la condannano a un ulteriore calo, relegandola a un mediocre 4 per cento; con la sola eccezione di un Veneto dove peraltro dovrà abdicare al ruolo di primo partito.
Inutilmente Salvini si esibisce in funambolismi seriali senza arte né parte, tipo proporre i gommoni degli scafisti in Mediterraneo come più pericolosi dei carri armati di Vladimir Putin; ma con tutto questo rimane inchiodato a uno scolorito 8 per cento che lo relega al rango di comparsa.
È talmente mal ridotto, l’autoproclamato Capitano, da avere arruolato non solo come truppa, ma addirittura come suo numero 2 l’estroso generale Roberto Vannacci, uno che vorrebbe mettere come materia di studio nelle scuole la X Mas, e che usa il «me ne frego» al posto delle virgole. Ma la sua è una scelta palesemente strumentale. Come dimostrano con tutta evidenza i risultati delle scorse europee, Salvini fa del generale una sua autentica protesi elettorale: senza i consensi portati dal teorico del mondo al contrario, la Lega farebbe concorrenza non già a Forza Italia, ma alla sparuta pattuglia dei seguaci di Maurizio Lupi.
Oltretutto, sommata alla deriva populistica ed estremistica impressa al partito, questa genialata di Salvini gli sta mettendo contro una parte consistente di un movimento che si sente espropriato della propria identità.
Il segretario si è autoconfermato fino al 2029: che ci arrivi, è tutto da dimostrare; specie con un partito geneticamente modificato, frutto di un singolare connubio tra il Capitano e il Generale. Come dire? La Lega Salvacci. —
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