Il frutto proibito del centrosinistra
Nel Veneto dell’urna, l’italico tricolore risulta decurtato di una componente cromatica: prima lungamente bianco-Dc, poi intensamente verde-Lega, con intervalli di azzurro-Forza Italia; ma rosso-(centro)sinistra, proprio mai o quasi


Bianco, verde... e così sia. Ab illo tempore, nel Veneto dell’urna, l’italico tricolore risulta decurtato di una componente cromatica: prima lungamente bianco-Dc, poi intensamente verde-Lega, con intervalli di azzurro-Forza Italia; ma rosso-(centro)sinistra, proprio mai o quasi.
Una replica seriale, spietatamente esibita nel voto regionale da trent’anni a questa parte. E che rischia di ripetersi tra pochi mesi: molto per l’indiscussa supremazia di un centrodestra i cui stucchevoli litigi locali saranno sanati d’autorità dalla casa-madre romana, alla faccia dei proclami sull’autonomia; ma in non indifferente quota-parte per l’atavico autolesionismo cronico di un centrosinistra imbelle.
Da cinque anni si sa che Luca Zaia sarebbe giunto a fine percorso. Ma per scegliere un’alternativa si è aspettato fino a cinque mesi dal voto; e ancora non si è trovata la quadra. Peggio ancora, non bastasse il gap con l’avversario, si è trovato il modo di complicarsi la vita da soli.
Come successo la scorsa settimana: quando, nelle stesse ore dello stesso giorno, due diverse voci del Pd hanno messo in campo due distinte candidature di partito; quasi contemporaneamente, il resto della coalizione rivendicava il ruolo per una figura della società civile.
Il giorno dopo, un comunicato ufficiale garantiva che l’alleanza è graniticamente unita. Il giorno ancora seguente, un’autorevole figura del Pd ha sparato a palle incatenate sui partner per la richiesta di schierare un civico. Ma almeno parlarsi prima di esternare, o anche un semplice whatsapp? Macché.
Ancor prima, si è andati avanti per settimane a buttar lì nomi in ordine sparso (Viola, Serena, Variati, Ruzzon...), senza averli nemmeno consultati, ottenendo urticanti smentite dagli interessati. Stiamo ancora aspettando la fumata bianca; comunque arriverà (molto) prima quella del nuovo Papa.
Di fronte a un simile scenario, sorge spontanea la domanda: c’è un percorso alternativo per un centrosinistra ridotto da trent’anni a materasso dell’urna?
La prima e più immediata risposta è il profilo del candidato: anziché litigare se tocca a me o a te, sarebbe il caso di individuare una figura capace, anche nella verosimile sconfitta, di impersonare per tutti i cinque anni di legislatura il leader unico, autentico, indiscusso dell’opposizione; cosa quasi mai capitata finora, per il prevalere dei piccoli deleteri protagonismi di singoli e di gruppo; per poi puntare, nel 2030, su una candidatura forte capace di vincere (i nomi non mancano, a partire dall’odierno sindaco di Vicenza, Giacomo Possamai), mettendola in campo per tempo e non all’ultimo minuto.
Soprattutto, il centrosinistra, a partire dal Pd, deve porre mano a quel rapporto vero col territorio che oggi è pressoché assente. Non pochi suoi esponenti di punta pensano che l’importante sia esternare a raffica, sfornando quotidiani pareri sullo scibile umano; che passano regolarmente inosservati. Così come di pura facciata è apparsa la scelta dei gazebo in cui chiedere ai veneti le indicazioni sul programma elettorale.
Come tutti i vecchi partiti grandi e piccoli insegnano, il tu-per-tu con la gente si costruisce nelle case e nelle strade della vita di tutti i giorni, non un paio di domeniche in piazza; dando risposte, non ponendo domande.
Altrimenti, si ottiene la sola risposta che conta, e che il centrosinistra veneto sta malinconicamente raccogliendo da trent’anni: l’impietosa bocciatura delle urne.
«Non sempre si può vincere», cantava anni fa il mitico Lucio Dalla. Beh, almeno ogni tanto non sarebbe male provarci.
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