Il Veneto al voto, cruccio per la premier Meloni
Il capo del Governo indebolito nella sua leadership per non aver ancora distribuito ai partiti della coalizione le Regioni prossime al voto. Il Veneto resta la piazza più ambita: la premier resiste ma sa che potrebbe dover cedere alla Lega


Quando non bastano due incontri al vertice per risolvere una questione di candidature locali, una cosa è certa: il secondo flop nel giro di sette giorni, in base alle rigide leggi della comunicazione politica, consegna alle cronache una premier indebolita nella sua leadership per non essere ancora riuscita a distribuire i posti a tavola ai commensali.
Non stupirebbe che Giorgia Meloni sia preoccupata dalla piega che ha preso questo tormentone delle regionali. Una partita per lei “lost-lost”, compromessa alla radice: il calendario le scodella nei mesi più duri in Parlamento, quelli della legge di bilancio (che saranno appesantiti dal dramma dei dazi), urne aperte in regioni dove la destra insegue e il suo partito non tocca palla: Toscana, Puglia, Campania, tutte facilmente riconquistabili dal centrosinistra. Unica partita giocata in casa, le Marche, dove il governatore uscente di Fdi, Maurizio Acquaroli, tira il fiato dopo che il suo sfidante Matteo Ricci ha ricevuto un avviso di garanzia.
Il campo di gioco però più prestigioso e ambìto, è il Veneto: dove malgrado il 37% preso da FdI alle europee, Giorgia probabilmente dovrà cedere ancora lo scettro alla Lega, senza trarne un ragno dal buco sul piano personale: quindi per evitare urticanti titoloni sui media di una sonora sconfitta ai punti con ricadute nazionali, la premier farà in modo di annacquare l’amaro calice. A fine settembre si voterà nelle Marche, a metà novembre in Veneto, in mezzo si voterà nelle altre regioni.
Facendo pertanto la somma dei fattori negativi, si capisce perché questo torneo delle regionali sia altamente temuto: in autunno arriveranno al pettine i nodi provocati dai dazi dell’amico Trump, con riflessi sulle imprese, sui lavoratori, sul pil e sulla perdita di competitività; una crisi che la premier dovrà gestire con due figure, Matteo Salvini e Antonio Tajani, che tutto sono tranne due guardie del corpo. Due figure con cui dovrà gestire la narrazione di questo test elettorale, l’ultimo di rilievo prima delle politiche.
Salvini avrà un nervo per capello, con i potenti governatori leghisti ostili perché privi della prospettiva di un terzo mandato, da Luca Zaia a Massimiliano Fedriga in Fvg, passando per Attilio Fontana che sa di dover cedere lo scettro lombardo ai fratelli-coltelli al prossimo giro. Tajani teme l’avvento di Pier Silvio Berlusconi e quindi farà di tutto per non essere disarcionato sull’altare del nuovo (in senso lato) che avanza.
Alla fine, da questo giro Giorgia sa di uscire senza una-bandiera-una da poter sventolare, se non quella delle piccole Marche, se verrà confermato Acquaroli. Ben poca cosa.
Ecco perché la premier resiste fino allo spasimo prima di cedere il Veneto alla Lega, commissionando sondaggi sui nomi da lanciare in battaglia, alzando una diga contro una lista Zaia che le rubi voti, facendo capire a Salvini che le leve di economia, sanità e infrastrutture venete finiranno nelle mani del suo partito, smanioso di accamparsi al Nord con le sue guarnigioni. Poca cosa rispetto al rischio di una sconfitta 4 a 1 pronosticata da Matteo Renzi e dai sondaggi.
Se fosse per lei, salterebbe la prova per proiettarsi subito alle prossime politiche, dove spera di fare un pieno di voti tale da poter correre da favorita nella partita che si aprirà sul Quirinale nel 2029. Un sogno a occhi aperti.
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