Conti pubblici, il Governo scelga se uscire o no dalla lista dei cattivi

Il governo tiene allo 0,5 per cento la stima per la crescita del Pil nel 2025, più di altre economie concorrenti, ma sempre poco in assoluto soprattutto se si considera il super doping del Pnrr

Marco ZatterinMarco Zatterin
Il ministero dell'Economia
Il ministero dell'Economia

Facciamo quattro calcoli. L’Italia si è impegnata con i partner di Bruxelles a portare il disavanzo al 3,3 per cento del Pil nel 2025, per poi arrivare al 3 per cento dodici mesi più tardi, in modo da liberarsi dalla mai piacevole procedura di deficit eccessivo e tornare nella compagnia bella degli euro-virtuosi della spesa corrente.

Grazie alla prudente gestione dei conti nazionali, nonché ai non prevedibili maggiori flussi in entrata nelle casse dell’Erario, il Tesoro ritiene che il calendario possa essere anticipato, e che ci siano margini per arrivare già quest’anno al 3 per cento e uscire subito dalla lista dei cattivi della contabilità pubblica. È una scelta importante e non scontata che bisogna ponderare con attenzione, perché comporta sia opportunità che rischi.

Conviene? L’impatto di un addio anticipato alla Procedura sulla gestione del nostro debito mostruoso (in salita oltre 137 per cento del Pil nel 2026) potrebbe risultare un vantaggio contenuto, visto che in questo momento in Europa non esiste un “problema Italia” e la valutazione della Repubblica come debitore è relativamente sotto controllo. La condotta del team Giorgetti-Meloni è perlopiù considerata stabile dai mercati, nonostante il gigantesco passivo storico nazionale.

Posto che la spesa per interessi permane elevata (4 per cento del Pil nel 2024), bisognerà essere sicuri che il gioco valga la candela. Dunque, sarà necessario valutare se un lieve miglioramento del servizio del debito (discesa degli interessi) giustifichi o meno il mantenimento della stretta sui conti.

E, visto che fuori Procedura si può accendere alla clausola di salvaguardia Ue che agevola gli investimenti in Difesa, se quello che si guadagna da una parte giustifica l’esborso dall’altra.

È uno zero-virgola, direbbero i politici. Ma la differenza fra il 3,3 a cui ci siamo votati per fine anno e il 3 che possiamo raggiungere equivale circa 6 miliardi di euro. E allora la domanda a cui rispondere è se vale la pena di cogliere subito il frutto della contabilità migliorata (e fare più di quanto ci viene chiesto) o rimanere in linea col programma definito a Bruxelles (decisione che non sarebbe in alcun modo penalizzante) per poi utilizzare il tesoretto per investire dove c’è più bisogno, a sostegno della produzione, nell’occupazione, nella sanità e nell’istruzione, più che nello sconto a chi non paga le tasse.

Il pur necessario capitolo della Difesa potrebbe essere fatto scivolare in parte sul groppone europeo, il che renderebbe l’Unione europea più forte e ogni Paese più garante della propria sovranità. Sempre che i litigiosi Ventisette riescano a mettersi d’accordo, ovviamente.

Il governo tiene allo 0,5 per cento la stima per la crescita 2025, più di altre economie concorrenti, ma sempre poco in assoluto, soprattutto se si considera il super doping del Pnrr. Una politica economica che sostenga le imprese di ogni taglia (con i loro lavoratori), e incida sul tessuto sociale, potrebbe aiutare ad affrontare quella che, ha scritto Confindustria ieri, resta «uno scenario internazionale indebolito» da una incertezza (Donald Trump e le guerre) che si mantiene su «livelli elevatissimi», e in cui calano sia l’export sia i consumi.

Sono tempi perigliosi in cui non è detto che sia utile fare i primi della classe per vedere (perlopiù in chiave elettorale) quanto si è bravi. Chi lo è, in fondo non ha davvero bisogno di dimostrarlo. Lo proveranno i fatti, se farà le scelte giuste nell’interesse di tutti. Anche se è soltanto uno zero-virgola. 

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