Cgil e governo, così ci perdono tutti

Dal muro contro muro alla concertazione mancata: scioperi ripetuti e chiusura politica rischiano di lasciare tutti perdenti, a partire dai lavoratori

Carlo BertiniCarlo Bertini

Esistono due modi per impostare una dialettica tra i sindacati dei lavoratori e i governi in carica: il muro contro muro e la concertazione, che ebbe in Carlo Azeglio Ciampi il protagonista di una stagione foriera di risultati indispensabili: governo e parti sociali nel 1993 concordarono una politica dei redditi, l’aumento dei salari legato alla produttività – che ridusse l’inflazione – e stabilizzò il sistema contrattuale a due livelli, nazionale e aziendale.

Dal muro contro muro il sindacato è uscito spesso con le ossa rotte, dalla concertazione è uscito con un ruolo politico forte, condiviso insieme alle imprese, che poi con gli anni si è andato perdendo. Senza arrivare all’esempio catastrofico, quello della Gran Bretagna paralizzata dallo sciopero dei minatori e dei trasporti nel 1984 contro il governo Thatcher che la spuntò dopo mesi di braccio di ferro, grazie alle scorte di carbone fatte e al carattere della premier, quello andato in scena ieri è un altro capitolo fallimentare di una strategia “lose-lose”, in cui perdono tutte le parti in causa: non solo i rappresentanti dei lavoratori, ma anche quelli di una maggioranza di governo, sorda ad ogni richiesta di confronto e di aggiustamento delle norme che più incidono sulle tasche dei cittadini.

Ma se il governo non ci sente, forse bisognerebbe cambiare strategia prima di rendere spuntate le armi più forti che il sindacato può usare come leva nella contrattazione.

Anche perché sono i lavoratori a perderci di più e non solo in una visione prospettica: ancora una volta ieri hanno sacrificato una giornata in busta paga, sentendosi irridere da premier e ministri per il week end lungo. E l’inflazione delle chiamate in piazza non è la causa principale: il 19 settembre, sciopero generale per Gaza; organizzatori, Cgil e varie sigle; il 3 ottobre, sciopero generale della Cgil; il 25 ottobre, grande manifestazione nazionale della Cgil per la democrazia e il lavoro. E il 12 dicembre, nuovo sciopero generale. Mezzo milione in piazza!, urla Landini. Il quale sembra non conoscere i manuali di base che elencano gli elementi in grado di sgonfiare il peso di uno sciopero generale: un uso troppo frequente di uno strumento che deve mantenere una sua eccezionalità; divisioni tra i sindacati; un governo compatto.

Ecco, non manca nulla: un tempo la mobilitazione generale di tutte le categorie di lavoratori bloccava il Paese ed era in grado di far cadere i governi. Oggi la premier scuote le spalle come a liberarsi di un insetto fastidioso, Matteo Salvini derubrica a piuttosto limitato l’impatto sui treni, l’adesione nella pubblica amministrazione si ferma al 20 per cento, nella scuola sotto il 5 e Landini urla “siamo al regime”, senza portare a casa nulla.

Come in un film distopico, poi, c’è un partito che appare senza l’opposizione, il Pd, che non organizza una manifestazione contro la legge di bilancio, ma va a quella organizzata da un sindacato, la Cgil, che dovrebbe svolgere un altro compito, migliorare le condizioni dei lavoratori. E di questa piattaforma – aumento dei salari, lotta alla precarietà, età pensionabile più bassa, più sanità e scuola pubblica – cosa resterà nero su bianco nella legge di bilancio? Domanda retorica. Forse, battersi per un protocollo di scelte condivise nel gigantesco tavolo ovale al primo piano di palazzo Chigi insieme alle imprese e agli altri sindacati, potrebbe produrre più risultati. Tentare nuoce meno che sbattere contro i muri. Ma ci vorrebbe anche un governo disposto ad accettare una dialettica sana con le parti sociali.

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