Manovra, salari e illusioni: che fine ha fatto il ceto medio?

Tra inflazione, redditi stagnanti e giovani impoveriti, il cuore sociale del Paese si restringe. Ma la politica continua a evocarlo come un mito

Peppino OrtolevaPeppino Ortoleva

Immagino che se chiedessi ai lettori a quale strato sociale pensano di appartenere la maggioranza di loro risponderebbero «al ceto medio». Ma che cosa vuol dire quest’espressione? Ed è vero che questa fascia sociale si sta riducendo o è addirittura in via di sparizione?

Certo, in politica di ceto medio si sente parecchio parlare. Da ultimo in questi giorni il ministro Giorgetti, per rispondere al rilievo sollevato da istituzioni come la Banca d’Italia e l’Istat per cui la manovra di bilancio favorisce in modo sproporzionato una minoranza più ricca della popolazione, ha risposto che a trarne vantaggio sarebbero al contrario i «redditi medi». Della stessa manovra Giorgia Meloni ha detto che mirava a «dare soccorso» al ceto medio.

L’uso che di quest’espressione si fa in politica, e da più parti, forse è legato anche alla sua vaghezza. Quando si ragionava in termini di classi sociali, fino agli anni Settanta del secolo scorso, si parlava piuttosto di “borghesia” cioè quello strato che si collocava, per reddito e per stili di vita, subito sotto i livelli sociali più elevati, e di “piccola borghesia”, situata tra la borghesia vera e propria e il proletariato.

L’affermarsi dell’espressione “ceto medio” corrisponde a un mutamento dei modi di pensare, al declino dell’idea di una società divisa in classi. E anche ad alcuni fenomeni sociali. Prima di tutto la crescita degli apparati pubblici e privati con l’aumento numerico di impiegati, insegnanti e altre professioni di analoga collocazione, che è difficile far rientrare nelle categorie tradizionali. E poi l’emergere anche tra i lavoratori manuali di una consistente fascia che non può essere definita “proletaria” per i livelli di reddito, anche grazie al lavoro delle donne che aumenta gli introiti per famiglia.

E che soprattutto nel nostro Paese ha in larga percentuale dei beni di proprietà a cominciare dal più solido di tutti: la casa. Così da più parti si è cominciato a parlare di una convergenza di gran parte della società verso una categoria, il ceto medio. Una tendenza accolta in generale con favore, che avrebbe comportato l’attenuarsi della conflittualità sociale e la piena adesione della popolazione alla democrazia.

Ma ora diversi fenomeni sembrano indicare che quel ceto ha smesso di crescere, anzi tende a contrarsi. Si assiste da anni al progressivo peggioramento della condizione economica di dipendenti pubblici e privati sotto i colpi dell’inflazione e del mancato adeguamento delle paghe. Inoltre, l’aspettativa a lungo dominante negli strati intermedi che le nuove generazioni andassero verso uno stile di vita migliore di quelle precedenti, si è rovesciata.

Ora i figli di questa popolazione sono spesso precarizzati e impoveriti rispetto ai genitori, e molti finiscono col gravare su di loro fino a età decisamente avanzata.

La tendenza oggi è all’accentuarsi della distanza tra i livelli più alti e quelli più bassi della scala sociale. E gli strati socialmente intermedi si trovano sospinti per una parte considerevole verso il basso, verso impoverimenti fino a poco tempo fa inimmaginabili. Tra le conseguenze, il disorientamento e anche il risentimento di chi si sente ingiustamente declassato, rivolto spesso contro bersagli che con quella caduta hanno poco o niente a che fare, a cominciare dagli immigrati. È un risentimento che le destre usano anche elettoralmente. Proprio mentre nei fatti, e ad onta di quanto sostiene il ministro Giorgetti, favoriscono invece gli strati più ricchi.

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