Il centrodestra, Stefani e le ragioni di un parto travagliato

La premier ha dovuto privilegiare la tenuta della maggioranza di governo rispetto ai desiderata del suo partito: il Veneto alla Lega è il male minore

Carlo BertiniCarlo Bertini
Giorgia Meloni (Ansa)
Giorgia Meloni (Ansa)

Giorgia Meloni ha privilegiato la ragion di Stato alla ragione di partito. Da quando nel 1970 furono istituite le regioni, mai un parto per scegliere la candidatura di un governatore fu più travagliato.

E mai fu più scontato, visto che la notizia che sarebbe stato il leghista Alberto Stefani il prescelto per il Veneto, i big di Fratelli d’Italia la davano per assodata dallo scorso aprile: sei mesi fa.

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Alberto Stefani è il candidato del centrodestra alle elezioni regionali in Veneto

Basterebbe questo per capire quanto alla premier questo epilogo non piaccia, c’è voluta un’estate intera, promesse e minacce per farglielo digerire. Dopo aver ottenuto l’ok di Tajani su Cirielli in Campania, la leader di Fdi se l’è vista a tu per tu con Salvini, guardandosi negli occhi. E l’uscita del Capitano, che a nome della Lega ha voluto stoppare le voci di un do ut des sulla Lombardia (dove si voterà nel 2028) la dice lunga: questa eventuale concessione al “nemico”, insieme e una nuova legge elettorale proporzionale (che farebbe perdere decine di seggi alla Lega), sono due diktat duri da rispettare.

Per carità, quello messo in scena è un gioco delle parti che deputati e senatori di Lega e Fdi avevano già previsto da mesi: per non far ammutinare i lumbard, il segretario sarebbe stato costretto a smentire di aver “ceduto” ai fratelli-coltelli la terra d’elezione della Lega bossiana. Mentre, per poter sbandierare di non aver perso, i Fratelli avrebbero dovuto far filtrare che a loro spetterà la regione più ricca della nazione. Senza se e senza ma.

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Alberto Stefani è il candidato del centrodestra alle elezioni regionali in Veneto

E comunque, malgrado la sua buona stella e la forza di cui gode nel paese, è stato un passo di lato più doloroso del previsto per Giorgia Meloni non poter esprimere un candidato in Veneto, violando la legge dei numeri che governa la politica. La forzatura rabbiosa con cui ha imposto agli alleati il nome di Edmondo Cirielli per la Campania è sintomatica: a causarla potrebbe essere stata la rivendicazione della vittoria in Calabria sbandierata da Antonio Tajani, quasi fosse ascrivibile solo a Forza Italia e non al potere di trascinamento di Giorgia l’aver stracciato così gli avversari. La premier ha restituito subito il colpo, scodellando la benedizione a Cirielli con una nota di Fdi, senza avvertire nessuno.

Tuttavia, Meloni, dopo aver resistito fino alla fine, è stata costretta a fare buon viso a cattivo gioco: si vedrà se Tajani la spunterà nella scelta del nome che dovrà correre a Milano nel 2027; sembra scontato che riesca a strappare una ricandidatura di Flavio Tosi per Verona. E anche se l’intesa con il Carroccio si concludesse con la cessione della Lombardia, i tamburi di guerra dei lumbard leghisti fanno presagire una serie imprevedibile di effetti a catena nella coalizione.

Al di là dei do ut des, tutti da vedere, Giorgia ha dovuto privilegiare la tenuta della sua maggioranza di governo rispetto ai desiderata di un partito che ha il triplo dei voti degli alleati: e ciò a dispetto del fatto che la Lega abbia perso consensi in Calabria e sia crollata nelle Marche. Lo ha fatto perché sa che altrimenti Salvini avrebbe rischiato l’osso del collo e con lui tutto il governo.

Dunque, il Veneto alla Lega costituisce il male minore. Ma certamente la premier un prezzo a breve scadenza lo farà pagare, il fronte aperto della legge di bilancio è terreno fertile per le rappresaglie, per non dire delle decine di nomine di posti apicali nelle regioni in arrivo, Veneto in primis…

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