Campo largo ancora spaccato, e Conte punta la leadership

Sull’aumento delle spese militari il centrosinistra presenta alla Camera cinque mozioni diverse: Elly Schlein sembra voler ignorare insidie e pretese sempre più esplicite del capo dei 5 stelle

Carlo BertiniCarlo Bertini
La segretaria del Partito Democratico, Elly Schlein (D), con il presidente del Movimento 5 Stelle, Giuseppe Conte (S)
La segretaria del Partito Democratico, Elly Schlein (D), con il presidente del Movimento 5 Stelle, Giuseppe Conte (S)

Se non fosse una questione terribilmente seria, verrebbe da sorridere. Invece, come se nulla fosse, proprio nel giorno più buio per l’Europa, che ha visto la Polonia invaso da droni e un missile russi, «un attacco di assaggio», per dirla con Politico.eu, i leader italiani della destra evitano di votare sull’aumento delle spese militari. Ma fanno finta di niente, glissano sulla loro divisione, sapendo che non rischierà di farli traballare. Mentre quelli della sinistra discettano sul sesso degli angeli alla Camera sulle mozioni per dire no alle spese militari: una per ogni partito, per giunta, non un solo testo corale che segni uno straccio di unità, ma un balletto di testi per opporsi al riarmo dell’Italia come chiesto dalla Nato. Ennesima riprova che l’aggregazione che sbandiera unità nelle candidature alle regionali, se per caso vincesse le elezioni, si ritroverebbe a governare sotto un cumulo di macerie e non sotto un tetto comune di valori e idee condivise.

Tanto per rinfrescare la memoria, la prima crisi del primo governo Prodi di centrosinistra, avvenne nel 1997 quando i comunisti di Fausto Bertinotti non votarono l’invio di tremila soldati in Albania, missione che fu approvata con i voti di Berlusconi. Da lì in poi fu un lento precipitare fino alla caduta l’anno dopo. Stesso copione per la missione Onu in Kosovo del governo D’Alema: Rifondazione uscì dall’aula e i soldati partirono con i voti di Forza Italia. Il centrosinistra si spaccò pure sulla missione Onu in Afghanistan nel 2011. Insomma, guerra e armi, temi dei nostri giorni, sono il vero nervo scoperto.

Beninteso, l’aumento fino al 5% del prodotto decennale del Paese, 455 miliardi di euro, è un’enormità per l’Italia e un signorsì dell’Europa al generalissimo Trump, non c’è dubbio. Ma in tale contesto, che come giustamente nota Sergio Mattarella, ricorda quello pre-conflitto mondiale del 1914, aderire all’impegno è divenuto un onere doveroso in un continente costretto a badare ai propri confini come un adulto deve proteggere le mura di casa propria.

E invece, alla Camera va in scena una imbarazzante fiera delle ipocrisie: Giorgia Meloni non offre ai media e a Bruxelles lo spettacolo di un governo diviso sulle armi, lascia rosolare le minoranze, che ci cascano in pieno.

Con Elly Schlein, che dopo uno psicodramma nel Pd durato tre giorni, si compiace che il campo largo sia unito nel dire no al riarmo fino al 5% del Pil, ma diviso «solo» su come aiutare l’Ucraina. Come fosse un dettaglio. Ma tra chi vuole difendere i confini europei e chi crede sia meglio chiuderla qui sperando che Putin non abbia altre mire c’è un fossato. Insomma, le cinque diverse mozioni di Pd, 5 stelle, Avs, Renzi e Calenda sulle armi la dicono lunga. Ognuna propone una ricetta su come spendere miliardi (che neanche ci sono), come se l’Italia non avesse già detto sì alla Nato. La sinistra italiana, se fosse chiamata a governare, copierebbe la formula dello spagnolo Sanchez, unico a dire no al riarmo europeo.

C’è poco da fare: quel colpo sparato di Giuseppe Conte nell’intervista al Corriere sul bisogno di individuare «un programma autenticamente progressista e l’interprete che offra maggiori garanzie di competitività» detta la linea, ma al tempo stesso coglie il punto debole della compagnia. E segna di fatto il lancio ufficiale della battaglia per la leadership del centrosinistra. Quando il leader di M5s sostiene la necessità di avere «un progetto serio che eviti un governo che si sfaldi come capitò all’Unione di Prodi», indicando i suoi caveat su economia, ambiente, eccetera, di fatto si pone alla testa della carovana.

E se Giorgia Meloni riuscisse a far approvare un nuovo sistema elettorale che obblighi le coalizioni a indicare il nome del candidato premier, la contesa a sinistra diventerebbe lacerante: anche se Conte puntasse davvero a una carica istituzionale come la presidenza del Senato, per partire in vantaggio nella gara per il Quirinale del 2028 – questo si dice nei capannelli della Camera – non è detto che Elly Schlein abbia strada spianata per la premiership del campo largo. Molti compagni l’hanno già avvertita che la ricerca dell’interprete migliore di questo fantomatico programma, sarà senza esclusione di colpi, anche se lei per caso vincerà le regionali quattro regioni a due. —

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