Gli auguri di Natale? Sì, ma che aiutino a scaricare il rancore
Se vogliamo essere davvero buoni durante le Feste, proviamo a riflettere su parole, riti e su noi stessi

Quando arrivano le Feste sarebbe l’occasione di fare buoni propositi. Non è facile, perché la prima cosa che viene in mente è che la festa, specialmente quando è di tutti come accade per il Natale e la fine dell’anno, rappresenta un’occasione per rilassarsi dai problemi che ci affliggono e magari per divertirci.
Forse è un poco deprimente che questo divertimento, quest’uscita dai margini di una normalità alquanto noiosa perché sempre uguale, avvenga attraverso il cibo, attribuendo alla parola “pranzo” (oppure “cenone”, se è quello del 31) un surplus di godimento e di piacere: tante persone amiche, tanto cibo poco abituale, insomma un modo di fare godere il proprio corpo assieme al corpo di quelli che sono lì nella tavolata comune.
Difficile dire se è proprio quello che accade dovunque, in ogni caso è quello che ci auguriamo facendoci appunto gli auguri. Resta sempre un po’ di insoddisfazione, però tentiamo di non pensarci troppo. Perché non basta l’allegria di gruppo, uno stare assieme non ordinario? Ci accontentiamo, ma qualcosa resta inespresso: alla fine manca qualcosa perché la festa risulti un’occasione speciale.
Possiamo dare diverse risposte alla domanda che riguarda, qui come in occasioni analoghe, il dubbio che la festa, per essere davvero tale, debba andare oltre il banale divertimento di conoscenti che bevono, mangiano e parlano in allegria, facendosi reciprocamente gli auguri. Che cosa ci auguriamo, in cosa consistono questi auguri al di là della loro ovvietà e della loro indubbia retorica?
Ipotizzo che ci auguriamo, e dunque ci impegniamo attraverso questo augurio, che il mondo vada un po’ meglio di come zoppica adesso, stia meglio in piedi. Ma sarebbe strano se non coinvolgessimo anche noi stessi in un simile impegno: che cosa diciamo a noi stessi, che cosa contiene come impegno per noi il nostro augurio, quel “buone” feste che auguriamo agli altri riguarda anche noi stessi? Non consiste solo in uno «speriamo che le cose vadano meglio», ma anche in un «vogliamo cambiare noi stessi perché ciò accada».
Personalmente – ma non sono certo l’unico – do un peso alle parole che adoperiamo, certo non a tutte, almeno a quelle che ci toccano da vicino e che, magari, pronunciamo come se fossero banali nel loro significato e nel loro uso. Perciò, come credo, il linguaggio che adoperiamo, molto spesso senza rendercene conto, parla al di là di ciò che crediamo di dire.
Faccio solo un esempio, prendendo una parola che da tanto mi ronza in testa, la parola “rancore”. Credo che quell’augurio, attraverso cui vorremmo forse dare un senso alla festa, possa riverberarsi in questo termine, poco usato ma molto significativo. Siamo pieni di rancore – possiamo negarlo? – e nell’augurio dovremmo rendercene conto, fermarci lì con il nostro pensiero e attraverso questa pausa augurale domandare a noi stessi perché siamo pieni di un simile rancore e come possiamo tentare di liberarcene almeno un poco.
Per farlo dovremmo riuscire a capire, almeno in parte che cosa ci opprime e che cosa coviamo dentro di noi, perché manteniamo una simile riserva di negatività verso ciò che non siamo riusciti a essere e verso ciò che gli altri ci spingono a diventare.
Prima che sia troppo tardi, l’attenzione a questa parola può aiutarci un poco indicandoci che il termine rancore contiene già in se stesso un indizio che ci aiuta, dicendoci che il rancore ha a che fare con l’appassimento, il diventare “rancidi”, di ciò che pensiamo e sentiamo, e dunque che quell’augurio che facciamo, senza stare troppo a pensarci, contiene l’esigenza di una fretta, la necessità che le nostre sensazioni e i nostri desideri non si irrigidiscano al punto che ogni augurio contrario sarebbe del tutto inutile.
Sì, credo che in quell’augurio festoso, che ci facciamo senza troppo pensarci, sia contenuto proprio il desiderio (e magari anche l’impegno) di tentare anche di liberarci dai rancori che nutriamo verso gli altri e, in definitiva, anche verso noi stessi.
Se questo, almeno in parte, avvenisse nell’esperienza degli auguri che tutti ci facciamo in questi giorni, la festa sarebbe più importante, e dunque produrrebbe – oltre al divertimento – anche un impegno verso noi stessi, impegno di cui abbiamo molto bisogno nel tappeto rullante della realtà quotidiana che ci sospinge a modo suo, senza che possiamo orientarci davvero.
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