Il ritmo giusto tra pausa e ascolto

Riducendo al minimo la pausa prima di una risposta, riduciamo anche la possibilità che l’altro ci ascolti. Non solo, rischiamo di azzerare anche la capacità di ascoltare noi stessi, con conseguenze negative

Pier Aldo Rovatti
Il telefonino, simbolo del mondo moderno bombardato di informazioni
Il telefonino, simbolo del mondo moderno bombardato di informazioni

In ogni momento siamo quasi obbligati a venire avvolti da una quantità di informazioni che sentiamo spingerci di qua e di là con un movimento crescente, quasi assordante.

Siamo presi, bloccati da un fiume di stimoli, veniamo come assordati, ma in realtà ciò che ci accade è che restiamo là dove siamo, fermi, quasi incapaci di reagire a tale massa di stimoli che non ci portano ad agire, ma che hanno l’effetto di distrarci e di bloccarci nelle nostre solitudini.

Questo ascolto incalzante al quale sembriamo ogni giorno destinati, sviluppa la nostra crescente incapacità di ascoltare quello che ci arriva dall’esterno, con la conseguente incapacità di interrogare noi stessi sul torrente di parole e immagini dal quale veniamo comunque travolti. La domanda «come possiamo reagire?», quando e se affiora, non trova una facile risposta.

Isolarci, facendo finta che questo torrente non esista e non ci riguardi? È molto complicato, e poi vorrebbe dire ingrandire la nostra solitudine e stare a lato della realtà quotidiana. Peggio ancora: potrebbe non accelerare la nostra incapacità di correre insieme agli altri e bloccarci così in forme di isolamento sociale.

Basta uno sguardo attorno a noi per rendersi conto della modalità attraverso cui i giovani si barricano in gruppi chiusi, magari del tutto pacifici, comunque desiderosi di separarsi e isolarsi dagli altri. È sempre stato così? Forse, ma adesso è una pratica diffusa, quasi necessaria per stare bene nella separazione.

Se, poi, rivolgiamo lo sguardo dall’altra parte, cioè all’anzianità, non è difficile osservare che qui l’isolamento è forzato, bisognoso di sostegno sociale, poco visibile e da mettere in vista. Un tempo, l’anziano era una possibile fonte di saggezza e insegnamenti sul vivere, adesso appare spesso come un individuo noioso che non ha più niente da dire agli altri, sempre più lontano dalle esigenze dei giovani, e loro lontani da lui.

Di cosa avremmo bisogno per cambiare un poco l’aria che tira e migliorare la respirabilità della situazione nella quale stiamo rischiando di impantanarci? Non è facile dare una risposta convincente, però possiamo cominciare proprio ragionando sul nostro modo di respirare, che è quasi sempre agitato e convulso.

Parlando di respiro introduciamo certo qualcosa di metaforico, ma non del tutto perché è in gioco anche il nostro stesso modo di respirare nel gesto della reazione immediata e della fretta di dare una risposta a chi ci incalza con le domande.

E non c’è neppure bisogno che ci sia davanti a noi qualcuno che ci toglie il tempo, perché è ormai situazione generalizzata e diffusa nella vita quotidiana di ciascuno. Perciò la capacità e l’esigenza di introdurre una pausa, una sospensione, un’attesa, stanno diventando atteggiamenti rari e difficili da mettere in atto nel rapporto con gli altri. Il mondo mediatico ci sollecita quotidianamente a cancellare il silenzio di una simile pausa.

Se taci, la parola passa a qualcun altro lì presente e tu hai perso l’opportunità di farti ascoltare. Qualcuno ci prova, giocando sulla propria importanza nel dibattito in corso, ma ottiene solo di apparire esigente e di darsi rilievo.

La pausa che sto cercando di richiamare è il contrario della fretta che caratterizza le discussioni pubbliche (mediatiche e non) che hanno sempre tempi stabiliti e inderogabili. Questa pausa, che riguarda il comportamento soggettivo di ciascuno di noi, non ha niente a che fare con l’orologio che segna il tempo, perché investe la complessità del comportamento individuale. Eliminandola o riducendola al minimo modifichiamo completamente la nostra esperienza: non solo il rapporto con l’esterno ma anche quello con noi stessi.

È proprio questo che vorrei evidenziare: riducendo (o addirittura eliminando) la pausa, non solo cambiamo il rapporto con chi sta accanto a noi (o comunque ci ascolta), ma modifichiamo anche il rapporto con noi stessi, togliendo o riducendo al minimo la possibilità di ascoltarci. Ecco il punto importante: il complesso rapporto tra pause e ascolto. Riducendo al minimo la pausa prima di una risposta, riduciamo anche la possibilità che l’altro ci ascolti. Non solo, ma rischiamo di azzerare anche la capacità di ascoltare noi stessi, con conseguenze negative.

Faccio osservare – in conclusione – che una simile semplificazione, quasi sempre inconsapevole, non vale solo nei cosiddetti dibattiti, ma incide perfino in chi – come me – di mestiere fa l’insegnante. Raramente, in chi insegna, verifichiamo un atteggiamento autocritico, con risultati molto discutibili, dato che l’insegnante autorizza così chi lo ascolta a ridurre il suo stesso ascolto a qualcosa di schematico o comunque traducibile in un tratto ben definito, con tanti saluti alla possibilità di esercitare a propria volta uno spirito critico e quella pratica che dovrebbe essere decisiva, cioè il dubbio. —

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