Alla montagna non basta una legge: servono certezze
Duecento milioni l’anno per tre anni sono di fatto spiccioli, da ripartire tra i 3538 Comuni montani del Paese, quindi con una media di 170 mila euro ciascuno da qui al 2027


La montagna e il topolino. C’è l’impronta della vecchia favola di Esopo, nella legge sulle Terre Alte appena varata dal Parlamento: attesa lunga trent’anni per partorire un provvedimento formato bonsai, che sancisce principi sacrosanti ma senza gli strumenti adeguati per tradurli nella pratica. A partire dai soldi: 200 milioni l’anno per tre anni sono di fatto spiccioli, da ripartire tra i 3538 Comuni montani del Paese, quindi con una media di 170 mila euro ciascuno da qui al 2027. Denaro con cui, secondo la legge, bisognerebbe mettere mano a scuola, sanità, infrastrutture, agricoltura, rete internet. Risorse, oltretutto, solo di carta e sulla carta: per renderle operative mancano i decreti attuativi, uno dei punti dolenti delle pubbliche casse. Basti ricordare che a oggi a Roma ce ne sono in sospeso 552, frutto degli ultimi quattro governi, bloccando investimenti per 12 miliardi.
Una svolta c’è, e ne va dato atto. Lo spirito della legge restituisce alla montagna l’essenza e la dignità della sua vera natura: luogo identitario che non può essere ridotto e degradato al puro turismo da consumo. Per anni le Terre Alte sono state e sono condannate d’estate alla macelleria dei cafoni del selfie a oltranza; d’inverno allo sfruttamento di quella che Mauro Corona bolla come «la montagna dove nevica firmato»; in ogni stagione alla bulimia edilizia di seconde case che hanno alimentato vergognose speculazioni. Questo sfruttamento selvaggio è passato sulla testa e sul corpo di chi ci vive tutto l’anno, dovendo fare i conti con fatiche e costi di gran lunga superiori a quanto accade in pianura. Ma proprio per questo non basta una legge che sancisce sacrosanti principi, senza accompagnarli con i mezzi per tradurli nella quotidianità.
La questione è rilevante anche in termini numerici, come conferma un’occhiata alla carta geografica. In Italia, i Comuni montani sono il 44% del totale, e nei due terzi dei casi hanno meno di duemila abitanti. È un’anagrafe cui il Nord Est contribuisce per la sua quota parte: rientrano nella categoria il 38% dei municipi Fvg, e il 20% di quelli veneti. Si tratta di aree a elevata fragilità tra rischio sismico, frane e alluvioni, come ha da poco segnalato l’annuale rapporto dell’Unione delle Comunità montane: le risorse per la prevenzione sono irrisorie, in compenso risultano elevate quelle per riparare i danni. Da Tarvisio alla Sila, chi in montagna ci vive sa bene cosa e quanto costi sfangarla ogni santo giorno: mentre via via si perdono servizi, risorse, soprattutto persone specie giovani che se ne vanno.
Dovunque, e a Nord Est in modo particolare, il modello di sviluppo ha privilegiato le aree di pianura, relegando quelle di montagna al ruolo di distretto dell’intrattenimento, gigantesco luna park dei fine settimana: i guasti sono vistosi, per giunta esasperati dal cambiamento climatico. È tempo non di girare semplicemente pagina, ma di cambiare registro: con leggi che non si limitino alla teoria, ma mettano mano alla pratica. Altrimenti, sarà l’intera montagna a franare, e non solo sul piano ambientale, ma pure su quello umano.
Come avverte una vecchia canzone popolare dell’area del Comelico: Quando muore un vecchio / se ne vanno le radici del paese / se ne va questo povero paese / verso un inverno freddo / e forse un’altra primavera / per noi non verrà più.
La montagna non può restare appesa a un “forse”. —
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