Alla montagna non basta una legge: servono certezze

Duecento milioni l’anno per tre anni sono di fatto spiccioli, da ripartire tra i 3538 Comuni montani del Paese, quindi con una media di 170 mila euro ciascuno da qui al 2027

Francesco JoriFrancesco Jori
Una veduta di Livigno
Una veduta di Livigno

La montagna e il topolino. C’è l’impronta della vecchia favola di Esopo, nella legge sulle Terre Alte appena varata dal Parlamento: attesa lunga trent’anni per partorire un provvedimento formato bonsai, che sancisce principi sacrosanti ma senza gli strumenti adeguati per tradurli nella pratica. A partire dai soldi: 200 milioni l’anno per tre anni sono di fatto spiccioli, da ripartire tra i 3538 Comuni montani del Paese, quindi con una media di 170 mila euro ciascuno da qui al 2027. Denaro con cui, secondo la legge, bisognerebbe mettere mano a scuola, sanità, infrastrutture, agricoltura, rete internet. Risorse, oltretutto, solo di carta e sulla carta: per renderle operative mancano i decreti attuativi, uno dei punti dolenti delle pubbliche casse. Basti ricordare che a oggi a Roma ce ne sono in sospeso 552, frutto degli ultimi quattro governi, bloccando investimenti per 12 miliardi.

Una svolta c’è, e ne va dato atto. Lo spirito della legge restituisce alla montagna l’essenza e la dignità della sua vera natura: luogo identitario che non può essere ridotto e degradato al puro turismo da consumo. Per anni le Terre Alte sono state e sono condannate d’estate alla macelleria dei cafoni del selfie a oltranza; d’inverno allo sfruttamento di quella che Mauro Corona bolla come «la montagna dove nevica firmato»; in ogni stagione alla bulimia edilizia di seconde case che hanno alimentato vergognose speculazioni. Questo sfruttamento selvaggio è passato sulla testa e sul corpo di chi ci vive tutto l’anno, dovendo fare i conti con fatiche e costi di gran lunga superiori a quanto accade in pianura. Ma proprio per questo non basta una legge che sancisce sacrosanti principi, senza accompagnarli con i mezzi per tradurli nella quotidianità.

La questione è rilevante anche in termini numerici, come conferma un’occhiata alla carta geografica. In Italia, i Comuni montani sono il 44% del totale, e nei due terzi dei casi hanno meno di duemila abitanti. È un’anagrafe cui il Nord Est contribuisce per la sua quota parte: rientrano nella categoria il 38% dei municipi Fvg, e il 20% di quelli veneti. Si tratta di aree a elevata fragilità tra rischio sismico, frane e alluvioni, come ha da poco segnalato l’annuale rapporto dell’Unione delle Comunità montane: le risorse per la prevenzione sono irrisorie, in compenso risultano elevate quelle per riparare i danni. Da Tarvisio alla Sila, chi in montagna ci vive sa bene cosa e quanto costi sfangarla ogni santo giorno: mentre via via si perdono servizi, risorse, soprattutto persone specie giovani che se ne vanno.

Dovunque, e a Nord Est in modo particolare, il modello di sviluppo ha privilegiato le aree di pianura, relegando quelle di montagna al ruolo di distretto dell’intrattenimento, gigantesco luna park dei fine settimana: i guasti sono vistosi, per giunta esasperati dal cambiamento climatico. È tempo non di girare semplicemente pagina, ma di cambiare registro: con leggi che non si limitino alla teoria, ma mettano mano alla pratica. Altrimenti, sarà l’intera montagna a franare, e non solo sul piano ambientale, ma pure su quello umano.

Come avverte una vecchia canzone popolare dell’area del Comelico: Quando muore un vecchio / se ne vanno le radici del paese / se ne va questo povero paese / verso un inverno freddo / e forse un’altra primavera / per noi non verrà più.

La montagna non può restare appesa a un “forse”. —

 

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