Il futuro incerto dell’ex Ilva nella battaglia dell’acciaio
Mentre l’Europa alza i dazi sull’import dalla Cina, per il mega impianto di Taranto mancano ancora candidati industriali

Non è ancora stato trovato chi salverà il più grande complesso siderurgico d’Europa. E l’incertezza aumenta. Soprattutto perché dalla partita dell’ex Ilva sono usciti gli unici due operatori industriali che nel 2024 avevano presentato offerte per l’intero perimetro aziendale del gruppo Acciaierie d’Italia in amministrazione straordinaria, che l’anno scorso ha prodotto meno di due milioni di tonnellate di materiale.
Anche il gruppo indiano Jindal, su cui il governo puntava dopo il ritiro degli azeri di Baku Steel, ha fatto cadere il suo interesse e si sta invece concentrando sull’acquisizione di un impianto tedesco di ThyssenKrupp. Oggi le uniche due offerte per l’intero perimetro aziendale sono quelle dei fondi d’investimento Bedrock e Flacks Group. A cui se ne aggiungono sette limitate a singoli asset, soprattutto per gli impianti di affinamento in Piemonte e Liguria, da parte di Renexia (Gruppo Toto), Industrie Metalli Cardinali (Imc), Marcegaglia da sola e in due diverse cordate, rispettivamente con Sideralba e l’altra con Profilmec e Eusider, Car, Eusider da sola, e infine Trans Isole. Teoricamente ne potrebbero arrivare ancora, perché la scadenza dello scorso 26 settembre per il deposito delle offerte nella prima fase della gara riaperta in agosto non è perentoria.
Nuovi potenziali acquirenti del 100% di Acciaierie d’Italia disperatamente cercansi, quindi. Il ministro delle imprese e del made in Italy Adolfo Urso a tal proposito ha ribadito in parlamento che il governo vuole assolutamente evitare il cosiddetto spezzatino e sta lavorando a un progetto unitario attraverso un processo veloce di riconversione ambientale. L’obiettivo per l’impianto a ciclo integrale di Taranto è sostituire nei prossimi anni tutti gli altiforni a carbone con dei forni elettrici in grado di produrre da rottami e da minerale preridotto (Dri - Direct Reduced Iron) almeno sei milioni di tonnellate l’anno di acciaio a basso contenuto carbonico. Un volume considerato il minimo essenziale per l’equilibrio economico: con l’attuale basso regime produttivo l’ex Ilva continua infatti a perdere decine di milioni di euro al mese e a bruciare i vari prestiti ponte concessi dallo Stato.
A metà agosto il governo, Acciaierie d’Italia, Dri d’Italia e gli enti locali pugliesi avevano firmato un’intesa che dovrebbe portare alla definizione dell’accordo di programma di rilancio. Ma rimangono da definire, oltre che i tempi e gli investimenti necessari per il nuovo assetto produttivo, anche la localizzazione dell’impianto Dri e le relative modalità di approvvigionamento energetico, visto che il Comune di Taranto non vuole una nave rigassificatrice nel porto. Tutto rinviato, dunque, a dopo la scadenza della nuova gara. Inoltre pende ancora una spada di Damocle giudiziaria sull’area a caldo dell’acciaieria, che potrebbe essere chiusa se fosse accolta in tribunale un’azione inibitoria da parte di un gruppo di residenti che denunciano la persistenza di violazioni dei diritti alla salute, alla serenità e tranquillità di vita e al clima.
A questo punto, se non si troverà un privato che presenti un piano industriale congruo per gli obiettivi ambientali e di rilancio della produzione e dell’occupazione, potrebbe anche diventare reale l’ipotesi di nazionalizzazione. Chi sostiene questa strada sottolinea l’importanza di mantenere in Italia un’adeguata base industriale in grado di servire l’elevata domanda di laminati caldi e di altri prodotti piani, che storicamente l’ex Ilva produceva e che oggi sono ampiamente importati a prezzi molto concorrenziali da Turchia e Asia. A patto che la richiesta di mercato, già rallentata, non si riduca ulteriormente, e che i prezzi di queste commodities siderurgiche siano competitivi rispetto alle importazioni. Ma qui si pone il problema della sostenibilità economica del rilancio dell’ex Ilva, gravata dai pesanti costi del personale da ridimensionare e soprattutto degli investimenti da realizzare per la decarbonizzazione. Gli addetti dovranno calare decisamente, perché digitalizzazione e automazione hanno drasticamente ridotto il fabbisogno di manodopera nel settore siderurgico.
La profonda trasformazione tecnologica prevista per il grande stabilimento tarantino dovrebbe poi avvenire in un contesto di accentuata sovracapacità produttiva della siderurgia mondiale, a partire dall’Asia, in cui l’Europa rischia un’invasione di acciaio che non trova più sbocco nel mercato americano, protetto da dazi del 50%. La scelta di puntare innanzitutto su commodities base, perché assicurerebbero i volumi produttivi minimi di sei milioni di tonnellate l’anno che una specializzazione solo in acciai speciali ad alta resistenza verosimilmente non garantirebbe, può essere teoricamente aiutata dallo scudo di salvaguardia della siderurgia europea. Cioè dalla recente proposta della Commissione Ue di ridurre fortemente le quote di import esenti da dazi per decine di categorie merceologiche di acciaio e di raddoppiare dal 25 al 50% le tariffe extra soglia. In un settore caratterizzato anche in Europa da eccesso di capacità industriale, con un tasso di utilizzo degli impianti sceso di quindici punti in quindici anni a poco più del 60%, l’obiettivo Ue è tagliare l’import e rilanciare la produzione continentale anche di acciai base. Resterebbe però rilevante il rischio per il futuro dell’Ilva di basarsi troppo su prodotti a basso valor aggiunto operando in un contesto di eccesso di offerta.
In Italia, infatti, nel comparto dei laminati piani sta per partire il progetto della nuova acciaieria a forno elettrico della joint-venture Metinvest-Danieli a Piombino, che entro il 2030 dovrebbe sfornare 2,7 milioni di tonnellate di hot rolled coils l’anno. Si tratta sicuramente di una tipologia di semilavorati di cui c’è molta richiesta da parte dell’industria manifatturiera del Nord Italia e che, dopo il crollo della produzione dell’ex Ilva, sono oggi ampiamente importati da paesi extra Ue. Ma ci stanno puntando anche il gruppo Arvedi e il gruppo Marcegaglia, che ha acquisito un’acciaieria in Francia per iniziare a produrre internamente nei prossimi anni hot rolled coils che sinora acquista da Acciaierie d’Italia e all’estero.
In ogni caso, qualsiasi strada eventualmente si prenderà, o con l’arrivo di un cavaliere bianco che oggi appare poco probabile o con la nazionalizzazione per motivi di centralità strategica del settore, i livelli occupazionali del gruppo siderurgico saranno fortemente impattati. Attualmente Acciaierie d’Italia conta circa 10 mila dipendenti, di cui ottomila a Taranto. E quasi la metà è oggi in cassa integrazione. Inoltre, parecchie migliaia sono gli addetti nell’indotto. Ma un’acciaieria moderna ha bisogno di molto meno personale.
Gli esperti di metallurgia concordano infatti che digitalizzazione, intelligenza artificiale e crescente automazione hanno drasticamente ridotto il fabbisogno di manodopera nel settore siderurgico. Ed escludendo la produzione di Dri, un impianto da cinque milioni di tonnellate di produzione può essere gestito con circa 2.500 addetti, o addirittura solo 800 in scenari di automazione avanzata. Ammesso che l’ex ilva abbia un futuro, l’esigenza di un doloroso piano di esuberi è pertanto evidente.
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