Dal laboratorio all’impresa: il tech transfer che serve al Nord Est
Se guardiamo con onestà a ciò che accade nelle regioni più avanzate d'Europa e del mondo, ci accorgiamo che il passo deve ancora accelerare. Il numero di spin off universitari nati nel Nordest rimane contenuto

Quando parliamo di innovazione nel Nordest la conversazione tende a muoversi su binari familiari.
La manifattura che tiene, l'export che continua a rappresentare un polmone decisivo, la cultura dell'adattamento che ha permesso al territorio di superare crisi e trasformazioni.
È una narrazione vera, ma sempre più incompleta.
Perché il terreno su cui si gioca la prossima fase dello sviluppo non è soltanto la capacità di produrre bene, ma la capacità di trasformare conoscenza scientifica in impresa, ricerca in tecnologia, laboratori in prodotti e servizi capaci di scalare. In una parola: trasferimento tecnologico.
Negli ultimi anni sono emersi segnali che meritano attenzione.
La SISSA a Trieste si conferma un centro di eccellenza internazionale nella formazione avanzata e nella ricerca.
A Padova il competence center Smact ha iniziato a costruire ponti tra università e imprese, sostenendo progetti di innovazione in settori chiave della manifattura veneta.
In Veneto e Friuli Venezia Giulia operano strutture come T2i che lavorano per valorizzare la ricerca e renderla accessibile al tessuto produttivo. Sono tasselli di una storia che si sta scrivendo, segni di una consapevolezza crescente.
Eppure, se guardiamo con onestà a ciò che accade nelle regioni più avanzate d'Europa e del mondo, ci accorgiamo che il passo deve ancora accelerare.
Il numero di spin off universitari nati nel Nordest rimane contenuto. In Italia, tre atenei catturano il 75 per cento degli investimenti di venture capital legati a spin off accademici: Politecnico di Milano, Bocconi e Bologna.
È una fotografia impietosa che dice molto più di quanto sembri. Non solo una questione di risorse, ma di densità scientifica, di cultura dell’imprenditorialità tecnologica, di ecosistemi che hanno imparato a trasformare ricerca in imprese capaci di attrarre capitale, talento e ambizione.
Perché allora questa distanza?
Le cause sono diverse, e nessuna assolve completamente gli attori in campo.
Dal lato delle imprese, un dato offre un'indicazione chiara. Secondo il bollettino statistico della Regione Veneto, nel 2022 solo otto nuovi assunti su cento possedevano un titolo terziario.
In un mondo in cui la competizione industriale si gioca sempre di più sulla capacità di integrare competenze avanzate, sulla padronanza delle tecnologie digitali, sull'adozione di soluzioni basate su AI e automazione, questo dato è un campanello d’allarme.
Senza domanda di conoscenza, senza giovani formati in discipline STEM che entrano nelle aziende, senza la volontà di investire in capitale umano qualificato, il collegamento con il mondo della ricerca resta episodico.
La tecnologia non entra nelle fabbriche per osmosi, ma attraverso persone, linguaggi, esperienze condivise.
Dall'altra parte, però, c’è un sistema universitario che deve compiere un salto culturale.
Il trasferimento tecnologico nasce soprattutto nei dipartimenti STEM, e qui il Nordest non parte da zero: Trieste, Udine, Padova e Verona hanno competenze riconosciute e laboratori avanzati.
Ma ciò che ancora manca è un'infrastruttura sistemica capace di trasformare queste competenze in imprese.
Mancano incubatori dedicati alla deep tech, mancano laboratori congiunti pubblico-privati su scala significativa, manca una diffusione capillare della cultura imprenditoriale all'interno dei corsi di ingegneria, informatica, fisica, biotecnologie.
Troppo spesso l’educazione all’innovazione resta confinata nei dipartimenti economici e nelle business school, mentre in molte università del mondo i programmi di venture science e i percorsi di creazione d’impresa scientifica sono parte integrante della formazione dei tecnologi.
Per cambiare passo serve una architettura più chiara e una regia più esplicita.
Il Nordest ha imprese che investono in ricerca e innovazione avanzata. Danieli lavora a Udine su progetti sperimentali in intelligenza artificiale applicata all’industria metallurgica. Fincantieri collabora con l’accademia a Monfalcone su sistemi complessi e nuove tecnologie navali.
È verosimile che una parte di chi guida questi progetti provenga dalle università locali. Eppure queste relazioni rimangono troppo spesso affidate ai singoli, più che a un disegno deliberato.
Occorre trasformare questi campioni industriali in partner strutturati degli atenei, capaci di contribuire alla definizione delle priorità di ricerca, a percorsi di dottorato realmente industriali, alla co-creazione di laboratori e programmi congiunti.
Ma anche l’università deve mettersi in discussione senza timidezze. Perché se è vero che l’eccellenza scientifica si misura anche con la capacità di produrre conoscenza nuova, è altrettanto vero che la trasformazione dell’economia contemporanea richiede atenei che si aprano, che producano ricerca che abbia un impatto reale.
Non basta pubblicare paper. Soprattutto se quei paper, nella maggior parte dei casi, vengono letti solo da una cerchia ristretta di accademici.
L’università non può più permettersi di vivere in un circuito autoreferenziale.
Dobbiamo premiare chi porta tecnologie sul mercato, chi crea startup deep tech, chi si assume il rischio di tradurre idee scientifiche in soluzioni industriali. Senza questo allineamento degli incentivi, il trasferimento tecnologico resterà un esercizio di buona volontà individuale e non una politica di sistema.
Il Nordest ha davanti due strade.
La prima è quella rassicurante del conosciuto: continuare a muoversi per piccoli aggiustamenti, confidando nella capacità adattiva che ha sempre contraddistinto il territorio.
È una strategia comprensibile, quasi istintiva in un sistema che ha costruito ricchezza sulla manifattura e sulla prossimità ai mercati europei.
Ma è anche la strada che espone a un rischio crescente: trasformare il vantaggio competitivo di ieri in una traiettoria da low road, dove la competizione avviene sui costi, i margini si comprimono e la capacità di investire in tecnologia e capitale umano si riduce progressivamente.
La seconda strada richiede un salto di mentalità e di architettura.
Significa mettere al centro la convergenza tra industria e scienza, tra manifattura e ricerca avanzata, tra capitale fisico e capitale intellettuale. Significa accettare che la competitività futura non si giocherà solo sull’efficienza produttiva, ma sulla capacità di generare conoscenza nuova e di trasformarla in imprese tecnologiche, brevetti industriali, modelli organizzativi capaci di scalare.
I segnali esistono, i casi virtuosi non mancano, ma oggi sono ancora elementi isolati.Il tema non è celebrare ciò che già funziona, bensì trasformarlo in sistema. Perché il trasferimento tecnologico non può restare un esercizio retorico da brochure universitarie. Deve diventare l’asse portante della competitività industriale dei prossimi anni e il punto di partenza di una nuova stagione di sviluppo per il Nordest.
Riproduzione riservata © il Nord Est








