Perché l’economia Usa corre e quella europea arranca

In America maggiore vivacità ambientale nonostante l’attuale discutibile presidenza. Un anno fa Draghi denunciava il ritardo dell’Unione europea nel dotarsi di strumenti capaci di rilanciare la competitività, l’innovazione e l’attrattività del sistema economico

Andrea Tracogna
Uno dei simboli della forza economica degli Stati Uniti: a Wall Street il palazzo della Borsa di New York
Uno dei simboli della forza economica degli Stati Uniti: a Wall Street il palazzo della Borsa di New York

L’Europa rischia il declino se non cambia radicalmente il suo approccio alla crescita. È questo in sostanza il monito di Mario Draghi nel suo recente intervento, a distanza di un anno esatto dalla presentazione del rapporto col quale denunciava il ritardo dell’Unione europea nel dotarsi di strumenti capaci di rilanciare la competitività, l’innovazione e l’attrattività del sistema economico.

I dati comparativi parlano chiaro: nel secondo trimestre del 2025, il Pil degli Stati Uniti è cresciuto del 3,3% su base annualizzata, contro l’1,1% stimato per l’Eurozona (dati Bea e Bce). Per l’intero 2025 l’Ocse prevede un tasso di crescita all’1,8% per gli Usa, contro l’1,2% in Eurozona. La disoccupazione è al 4,2%, negli Usa, mentre in Europa è ancora al 5,9% (dati Bls e Eurostat). Allargando l’orizzonte temporale, nel periodo 2019-2024, la produttività è cresciuta del 12,4% negli Stati Uniti, contro il 3,8% in Eurozona (dati Bce).

Questi dati non devono sorprenderci. La salute dell’economia americana non è mai dipesa in via primaria dalle politiche macroeconomiche o dagli interventi governativi, quanto da meccanismi microeconomici radicati e straordinariamente efficaci e da un sistema di incentivi all’assunzione di rischio e allo svolgimento dell’attività economica che non ha eguali nel mondo.

Negli Stati Uniti convivono una cultura dell’impresa genuina, che non criminalizza il successo, con basi e dinamiche demografiche meno fragili rispetto a quelle europee, mercati interni vasti e dinamici, una burocrazia relativamente più snella e un’infrastruttura finanziaria che premia l’assunzione di rischio e che garantisce una migliore allocazione delle risorse.

Neppure il costo del capitale – oggi in Usa significativamente più alto che in Europa – sembra frenare la macchina americana. I tassi reali sul debito investment grade si aggirano intorno al 5%, e i prestiti bancari per le imprese si collocano spesso tra il 7% e il 10%.

Eppure, i rendimenti sugli investimenti sono ancora in grado di giustificarli: gli investimenti privati in R&S e in It sono quasi doppi rispetto a quelli europei, come pure la spesa in formazione continua (dati Oecd e Imf).

Le imprese Usa continuano così a investire in manifattura, digitale e infrastrutture, spinte da margini elevati e anche da incentivi pubblici mirati e sostanziosi (oltre 600 miliardi di dollari cumulati) come l’Inflation Reduction Act e il Chips & Science Act.

Gli Stati Uniti investono in modo più sistematico anche nell’alta formazione e nell’attrazione di talenti globali, grazie agli ingenti sforzi delle famiglie americane, ma anche in virtù dei generosi programmi di sostegno alle ammissioni universitarie. I giovani migliori trovano da sempre negli Usa un ambiente che valorizza le competenze, offre opportunità di crescita e incentiva la mobilità verticale.

Perfino l’immigrazione – pur controversa come in Europa – è negli Usa storicamente meglio integrata nei meccanismi di crescita: così, le imprese possono contare su un flusso continuo di forza lavoro giovane, qualificata e motivata.

Inoltre, l’economia americana si distingue per una minore tendenza a sostenere artificialmente imprese e settori giunti al termine del loro ciclo vitale. Il principio della “distruzione creatrice” schumpeteriana non è solo accettato, ma funziona come leva per la rigenerazione del tessuto imprenditoriale.

Così, le risorse vengono riallocate in modo più rapido verso nuove iniziative ad alto rendimento, mentre in Europa la logica del salvataggio permanente congela risorse in comparti improduttivi.

Ancora, mercati dei capitali profondi e articolati permettono fusioni, acquisizioni e crescita per linee esterne con grande efficienza. Con un peso più che doppio degli investitori istituzionali e un volume di Ipo ben maggiore di quello europeo, la contendibilità delle imprese americane stimola l’efficienza e scoraggia la rendita.

Nel loro complesso, questi elementi strutturali permettono da decenni al sistema americano di assorbire crisi, choc esterni, transizioni globali, e pure presidenze a dir poco discutibili, senza perdere slancio. Dal canto suo, l’Europa continua a lottare con fragilità sistemiche irrisolte.

La frammentazione (e la competizione) fiscale tra Stati membri, il peso burocratico delle istituzioni comunitarie e il costo sproporzionato di alcuni fattori produttivi – a cominciare dall’energia, il cui costo per le imprese europee è superiore di oltre il 50% a quello Usa – continuano a zavorrare la nostra competitività.

Ma il vero problema è più profondo: manca un motore microeconomico capace di riattivare la crescita dal basso. Dopo anni di sussidi post-crisi, di ristori post-Covid, di Pnrr e di discutibili politiche assistenzialistiche, ci si chiede se possa ancora rimanere spazio in Europa per costruire - dal basso, e non attraverso politiche governative - un sistema economico favorevole alla crescita e alla creazione di valore e basato su un sano spirito imprenditoriale.

Non è solo una questione economica, ma culturale. In Europa, il successo economico è spesso percepito con sospetto e l’attività imprenditoriale non è vista come strumento di progresso, ma quasi come minaccia alla coesione sociale. Finché questa mentalità non cambierà, non potremo aspettarci un’inversione di tendenza. Ma è proprio da questo cambio di paradigma culturale che l’Europa deve ripartire, se vuole tornare protagonista in un’economia globale sempre più selettiva.

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