L'intervista a Gianni Mion: «Noi sconfitti, ma è una tragedia per tutti i veneti»

L’ex presidente della Banca Popolare di Vicenza racconta un anno in prima linea, dalla nomina al commissariamento del 25 giugno. Fatti e aneddoti: da Atlante al piano bocciato da Dg Comp: la fiducia era irrecuperabile
MARIAN - AGENZIA BIANCHI - PADOVA - INCONTRO CASSA DI RISPARMIO. GIANNI MION
MARIAN - AGENZIA BIANCHI - PADOVA - INCONTRO CASSA DI RISPARMIO. GIANNI MION

TREVISO. «Il 25 giugno è stata una tragedia mascherata dalle carte». Gianni Mion, con l’ex cda Bpvi, è stato convocato in via Battaglion Framarin a Vicenza alle 8.30 di quella domenica mattina. «Si pensava che il decreto avesse il via libera subito, ma abbiamo dovuto aspettare ore». «I commissari liquidatori erano già a Vicenza dalla notte, ma hanno atteso l’ok di Bankitalia prima di entrare nella sede. Io e la presidente del collegio sindacale abbiamo firmato le carte della consegna, abbiamo restituito tutto. Attorno a me c’era gente che piangeva come a un funerale. Meno male che la burocrazia ci ha reso difficile capire fino in fondo cosa stava accadendo». L’ex presidente Gianni Mion è emotivamente provato. «Ho dormito poco anche stanotte» dice indossando una polo colorata al tavolo del bar Signore & Signori in centro a Treviso. Lo sguardo diventa lucido quando ricorda i dipendenti e il sogno di una unica banca del Nordest. «Ho francamente solo rammarichi» dice. «Adesso bisogna farsene una ragione».


Un anno di banca. Qual è il suo bilancio, dottor Mion?
«È stata un’esperienza interessante per le persone che ho avuto a fianco nel cda e nel collegio sindacale, tutte serie e preparatissime. Sono stati dei cirenei: hanno portato la croce; e meritavano una banca migliore. Il mio rammarico va ai dipendenti e gli ex dipendenti, tutti orgogliosi di aver lavorato in una grande banca. Ora tutto questo è distrutto, non c’è più. Per tutti i veneti è un brusco risveglio».


E per lei?
«Mi è servito come bagno di umiltà, per tenere i piedi per terra: ho visto tanti errori e sofferenza. È stato un episodio che mi ha insegnato molte cose. Le banche venete sono andate male; non sarà colpa del Veneto ma qualcosa è accaduto: Antonveneta, Bpvi, Veneto banca e anche il Banco Popolare, oramai gravitato su Milano. Come ciò sia successo lo lascio dire a sociologi ed economisti. Il mio invito oggi è non dimenticare cos’è accaduto, anche quando le insegne non esisteranno più».


La sua fusione è stata bocciata. Il piano dell’ad Viola non ha passato l’esame Ue.
«Dobbiamo registrare l’insuccesso e questo pesa. Ma c’è anche un po’ di sollievo: se fosse stato approvato, il piano avrebbe avuto dei problemi e avremmo avuto qualche anno duro davanti, specie all’inizio».


Ha sentito l’azionista Atlante in questi giorni? Il Fondo si è in pratica dissolto in Veneto.
«Anche Atlante è una vittima. Il Fondo (Atlante 1, ndr) è servito come ammortizzatore per chiarire meglio la situazione della banca per la strettissima collaborazione con la Bce e la verifica delle informazioni. È servito a un’operazione verità. È stato un intervento chirurgico su corpo vivo, ma senza gli strumenti per fermare l’emorragia».

Torniamo indietro nel tempo, per ricostruire i fatti: 15 mesi fa Bpvi pubblicava l’offerta pubblica per la quotazione in Borsa con prospetto approvato e aumento di capitale garantito. Anni luce fa. I toni entusiastici dell’ex ad Francesco Iorio si sono spenti dopo poco. Poi la valaga non si è più fermata.
«Appena nominato, qualche giorno dopo sono andato dal professor Penati e gli ho detto: “Professor, guardi: queste due aziende non erano quotabili, non erano neanche presentabili in Borsa”. Lui mi ha guardato e non mi ha detto nulla. Posso solo ipotizzare: o le cose non erano state capite o si pensava nel potere di attrazione commerciale del nome banca».


È grave che non le abbia capite chi doveva vigilare, non crede?
«E le banche che hanno garantito? Forse c’è stata una sottovalutazione. Qualche anno fa un’azionista di riferimento di un’importante azienda veneta mi disse: “anche noi abbiamo problemi ma adesso la crisi passa e torniamo come prima”. Questa fede nel tornare come prima è stato l’elemento caratterizzante. A parte la mala fede e i comportamenti non regolari di molti, alla fine sia le aziende affidate sia le banche hanno sempre pensato che tutto passasse. E, probabilmente, questo sentimento è stato condiviso ai massimi livelli».


E lei? Lei ha avuto fede nella fusione di queste banche.
«Noi sapevamo che la situazione era grave ma contavamo sulle capacità del management, di cda e collegio sindacale. Poi c’era anche un’azionista forte. Abbiamo puntato sulla riduzione delle cause legali, trovando durissime resistenze ma penso che, alla fine, abbiamo fatto un buon lavoro. Mi sono speso per far intravvedere che, se si superava quell’ostacolo, si sarebbe trovata più facilmente una prospettiva per il futuro. Ma a un certo punto, anche per le perdite costanti che avevamo, abbiamo capito che Atlante non era nelle condizioni di ricapitalizzare le società. Siccome non c’era speranza neanche di un intervento esterno di fondi, perché dovevamo essere in condizioni migliori, d’accordo con il ministero abbiamo richiesto la ricapitalizzazione precauzionale. Prima però avevamo già cominciato, da novembre, a lavorare sul piano industriale, che con l’intervento di Viola ha subito un’accelerazione. Le rassicurazioni delle istituzioni sul garantire un futuro alla banca mi avevano confortato. Ma continuavano i colloqui, con la Bce prima e Dg comp poi».


Vi chiedevano modifiche?
«Ci chiedevano continue modifiche. Poi alla fine è emerso che, mentre erano d’accordo sull’impostazione della riduzione dei costi, ritenevano impossibile l’obiettivo che il management si era proposto di recupero dei depositi».


Ha detto impossibile?
«Non perseguibile».


Neanche cambiando nome alle banche?
«No. Chiusura totale. La fiducia era talmente deteriorata che ritenevano non fosse più possibile recuperarla. Quindi hanno introdotto il concetto del capitale privato: 1,2 miliardi. Atteggiamento comprensibile; hanno detto: se c’è un investitore privato che ci crede, allora ci crediamo anche noi».


Ma nessuno ci ha creduto.
«È stato un coro di no. Noi sapevamo che bisognava trovare questi soldi privati ma pensavamo nell’arco di 18 mesi. Ma la Dg Comp l’ha posta come condizione subito».


E l’offerta di fine maggio dei quattro fondi stranieri?
«Da quello che ho capito era una cosa ipotetica, qualcosa fatto alla fondi.. metto però poi… »


Se l’aspettava alla fine la liquidazione?
«No, fino all’ultimo ho pensato che qualità del managent, conoscenza del territorio e bontà del piano consentissero l’entrata dello stato. Tutti erano sicuri che la raccolta sarebbe tornata».


Ma la Dg comp no.
«Dal Nord Europa hanno pensato di conoscere la situazione meglio di noi e hanno avuto una grande responsabilità. Per me era impossibile pensarlo ma l’hanno fatto e forse hanno ragione loro. Non abbiamo passato l’esame del Nord Europa questo è il senso, anche giustificato perché se si mettono in fila tutte le stupidaggini fatte in questi anni da queste banche...».


L’azione di responsabilità ora è in mano ai commissari. Cosa ci dobbiamo aspettare?
«Non lo so. La prima udienza dovrebbe essere a ottobre. Per quel tempo, spero che abbiano capito cosa fare».


Almeno non c’è stato bail in.
«Nelle teste venete il bail in c’è stato e per noi è stata la morte. Il fatto che venisse sempre ventilato ha creato il panico. La gente ha sempre messo i denari in banca perché era un posto sicuro. Ma improvvisamente, dopo che tutti i Paesi che se lo potevano permettere hanno fatto tutti i salvataggi del caso, si sono inventati che anche i depositanti potevano perdere i soldi. Che fossero azioni o bond poco importa, per i depositanti retail erano soldi sicuri. Tutti credevano di aver acquistato lingotti».


Perché glieli hanno venduti raccontandoli così?
«Non solo, volevano sentirsi dire questo».


Ora il decreto è in pieno dibattito politico. Ha timori?
«Penso sarebbe follia non farlo andare in porto».


Oggi scade il termine per la presentazione delle domande del fondo welfare: 30 milioni agli ex soci disagiati. Che ne sarà di questi denari?
«Sono in mano ai commissari ma devo premettere che le domande erano poche. Mi auguro che si sistemi anche questa partita. Quello che mi spiace è non essere andati incontro agli azionisti retail con più di 10 anni, non abbiamo potuto includerli nella transazione».


E la Fondazione Roi?
«Sono preoccupato: è probabile che venga commissariata e assorbita dalla Regione. Un grande rammarico perché è una fondazione importante con una missione sociale fondamentale per Vicenza. Mi sarebbe piaciuto investire sulla scuola quel poco che la banca poteva spendere insieme con la Fondazione. Sarà molto difficile ormai».


Adesso si dedicherà alla sua Space?
«Ora devo riposare, non è che ho lavorato tanto è la sofferenza che mi pesa. Il 27 c’è l’assemblea per l’operazione Space 3-Aquafil. I miei soci più giovani vogliono fare altre cose e, nonostante l’età, se mi vorranno ancora un po’, starò con loro. Mi piacerebbe gravitare su Milano, città che adoro sempre di più, e da lì vedere il progetto di Banca Intesa aiutare le aziende venete».

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