L’accordo di Fincantieri negli Emirati: «Un successo per l’Italia, in un’area dove è forte l’influenza anglo-francese»

Per Andrea Margelletti, presidente del Cesi, all’accordo di Fincantieri ha contribuito anche l’opera diplomatica del ministero della Difesa

Luca Piana

L’accordo di Fincantieri negli Emirati Arabi Uniti annunciato ieri viene definito «un grande successo del sistema Italia» da Andrea Margelletti, fondatore e presidente del Cesi-Centro studi internazionali, un think tank indipendente specializzato nei temi della sicurezza e della difesa.

Partiamo dalla crisi del Mar Rosso. Nei Paesi del Golfo è in atto una corsa a rafforzare le dotazioni militari e in particolare le navi?

«Viviamo in un mondo che sta attraversando difficoltà oggettive e quell’area è in una situazione di grande fragilità. Avere una marina militare in grado di difendere le coste e i transiti delle navi è diventata una necessità».

Un accordo di questa portata con gli Emirati come va letto dal punto di vita delle alleanze internazionali?

«Non c’è dubbio che sia un grande successo del sistema Italia, ascrivibile a tre diversi fattori. Prima di tutto c’è l’aspetto tecnico-industriale: Fincantieri nella cantieristica ha capacità riconosciute a livello internazionale, come mostra il fatto che la Us Navy le ha affidato la realizzazione delle fregate del programma Constellation».

E gli altri due fattori?

«La credibilità che si è guadagnata la presidente del Consiglio e l’opera di diplomazia intrapresa dal ministero della Difesa con il ministro Guido Crosetto. In un sistema globale che va in crisi dal punto di vista della sicurezza, l’opera diplomatica intrapresa dai ministeri della Difesa può arrivare a far convergere interessi che prima erano contrapposti, anche più di quanto riesca a fare la diplomazia tradizionale».

Fincantieri sta già costruendo diverse unità per il Qatar.

«C’è un aspetto di questi successi sul quale finora si è ragionato poco. Quella parte del mondo, per le navi delle dimensioni di quelle di Fincantieri, è sempre stata considerata d’influenza anglo-francese. Averli superati significa poter contare su grandi capacità progettuali, cantieristiche, tecnologiche».

Dopo quello annunciato ieri, dobbiamo aspettarci altri accordi?

«Il governo italiano ci sta lavorando, con grande riservatezza. Considerando che sull’Italia sono puntati gli occhi di Paesi nostri concorrenti sul piano industriale, anche se alleati politicamente, meno se ne parla meglio è».

La joint venture avrà la prelazione sugli ordini dai Paesi non Nato. A quali aree dobbiamo pensare?

«Penso in primo luogo al mercato asiatico. Negli ultimi anni, poi, l’Italia con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha effettuato importanti missioni nell’Africa sub-sahariana, anche con l’obbiettivo di diversificare le proprie fonti di energia».

Ci fa un esempio in particolare?

«Un esempio potrebbe essere il Mozambico, Paese dove l’Italia negli anni Novanta ha contribuito in maniera determinante anche grazie alla Comunità di Sant’Egidio alla fine della guerra civile e dove di recente il presidente Mattarella è stato in visita in un quadro di ampliamento e differenziazione delle linee di approvvigionamento energetico a seguito del conflitto russo-ucraino».

Un tempo si diceva che la diplomazia italiana la facesse l’Eni.

«Anche se non è mai stato vero, perché la diplomazia la fanno i governi, certamente l’Eni ha sempre riscosso grandi successi. Ecco, se c’è una differenza nell’accordo di ieri, è proprio nel gioco di squadra che lo ha reso possibile».

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