Rixi: «Porti d’Italia Spa sosterrà le Autorità: così Trieste e Venezia saranno più competitive»

Il viceministro: «Lo scalo giuliano e quello lagunare hanno pagato le lentezze decisionali. Con la riforma potranno tornare a essere vere porte d’ingresso continentali»

Carlo BertiniCarlo Bertini
Edoardo Rixi viceministro dei trasporti con delega sulla portualità
Edoardo Rixi viceministro dei trasporti con delega sulla portualità

«Il futuro dell’Italia è sul mare, serve una legge che consenta al Paese di diventare una vera potenza marittima, la porta sud dell’Europa: perché il sistema portuale italiano oggi corre con il freno a mano tirato, con oltre 50 porti organizzati in 16 Autorità sul territorio, prive di una regia nazionale capace di garantire un coordinamento strategico».

Quella regia nazionale tra sei mesi avrà un nome e cognome, Porti d’Italia Spa: la nuova società ideata da Edoardo Rixi, genovese e dunque non a caso autore della riforma organica del sistema portuale, varata lunedì dal consiglio dei ministri.

A sentirlo parlare, il viceministro dei Trasporti ha il tono di voce di chi sente di adempiere ad una missione e mentre spiega il senso della “sua” riforma, si capisce che una critica in particolare non gli va giù: quella di aver ideato lui, leghista doc, una legge centralista che dà più poteri a Roma. «Non è così, alle Autorità portuali non vengono tolte le competenze, tranne che sulla programmazione delle opere, su cui serve una proiezione estera per fare ciò che stanno facendo i cinesi e gli altri player globali».

Via libera alla riforma, nasce Porti d’Italia Spa
La redazione
Il porto di Trieste

Di qui la creazione della nuova società. E cosa non ha funzionato delle norme in vigore fin qui?

«La legge del 1994 non è più adeguata a competere in un contesto globale profondamente cambiato: sono mutati i mercati, i rapporti tra i continenti e perfino la struttura dell’armamento. Un tempo c’erano molti armatori con poche navi, mentre oggi il 90% della flotta mondiale è concentrato in sette grandi gruppi, e il primo da solo controlla circa il 30% delle navi. Va dunque costruita una società di coordinamento, che attinge capitale dal privato anche per dare più energie alle autorità portuali. Insomma, per vincere questa partita serviranno continuità politica, capacità di attuazione rapida, forte integrazione con la logistica e un dialogo costante con operatori e territori».

Compito non proprio semplice. Ce la farete?

«Il via libera del consiglio dei ministri segna una svolta storica: per la prima volta il Paese sceglie una visione unitaria, con obiettivi chiari e responsabilità definite, allo scopo di passare dalla semplice somma dei singoli scali a una vera rete portuale nazionale, integrata nelle grandi rotte del Mediterraneo, dell’Europa e del mondo. L’ambizione poi è anche quella di consentire a Porti d’Italia di acquisire partecipazioni in porti fuori dal territorio nazionale ed europeo. Significa smettere di giocare solo in difesa e iniziare ad attaccare».

Quali sono i gap che i porti italiani devono colmare per stare al passo con i colossi europei?

«Il primo è la scala: il porto di Rotterdam, da solo, movimenta più container di tutta l’Italia. Il secondo è la velocità decisionale: da noi un dragaggio può richiedere anni, nei porti concorrenti bastano pochi mesi. Il terzo è l’integrazione logistica: bisogna coordinare gli investimenti in strade e ferrovie con quelli marittimi. La riforma interviene con semplificazioni procedurali, accelerando i Piani Regolatori Portuali, rendendo più rapidi i dragaggi, digitalizzando i processi, affinché tutti gli scali “parlino la stessa lingua”».

Trieste e Venezia così riusciranno a strappare quote di mercato ai giganti nordici come Rotterdam?

«Non promettiamo miracoli, ma creiamo finalmente le condizioni per competere. Venezia e Trieste hanno una collocazione geografica naturale per intercettare i traffici dall’Asia verso l’Europa centro-orientale. Finora hanno pagato la frammentazione e le lentezze decisionali. Con una promozione unitaria del sistema portuale sui mercati internazionali, affidata a Porti d’Italia, e con investimenti strategici coordinati, questi scali possono tornare a essere vere porte d’ingresso continentali. La geografia da sola non basta, serve una governance».

Quando andrà a regime la nuova governance?

«Spero che prima dell’estate la riforma sia approvata dal Parlamento, che potrà arricchirla con contributi qualificati: non è un testo blindato. Poi i decreti attuativi consentiranno di avviare subito Porti d’Italia e l’Accordo di programma. La nuova società pubblica, partecipata dal Mef e vigilata dal Mit, permetterà di partire immediatamente con i grandi investimenti, la manutenzione straordinaria e una pianificazione pluriennale delle risorse. L’obiettivo è vedere i primi cantieri strategici accelerare già nel primo biennio».

Porti d’Italia finirà per esautorare le Autorità di Sistema Portuale?

«No, questa è una lettura sbagliata. Le Autorità di Sistema portuale vengono rafforzate nel loro ruolo naturale. Le liberiamo dal peso delle grandi opere, che già oggi faticano a gestire e le rimettiamo al centro della gestione dello scalo, delle concessioni e dei servizi. Le 16 Autorità restano pienamente operative, mantenendo la gestione territoriale, la manutenzione ordinaria e il rapporto con gli operatori. Porti d’Italia svolgerà una funzione centrale di coordinamento strategico che oggi il Mit fatica a esercitare».

Sindacati e operatori temono che alla fine si creerà un collo di bottiglia a Roma. Sbagliano?

«Il collo di bottiglia esiste già oggi. Ogni anno arrivano richieste di finanziamento frammentate dalle diverse Autorità di Sistema e non sempre è possibile soddisfarle. Porti d’Italia non aggiunge burocrazia: la sostituisce. Un solo soggetto attuatore, un solo cronoprogramma, una sola responsabilità. Il rafforzamento dei poteri di vigilanza del Mit serve proprio a garantire il rispetto dei tempi e delle regole, evitando paralisi e scaricabarile. È esattamente questo il senso della riforma».

Enti locali e territori hanno paura di dover sostenere loro i costi delle opere. Quanti investimenti serviranno e come verranno finanziati?

«La riforma prevede una dotazione iniziale di 500 milioni di euro per Porti d’Italia e un Fondo per le infrastrutture strategiche che, a regime, vale circa 480 milioni l’anno. La capitalizzazione avverrà utilizzando gli avanzi di amministrazione non vincolati del sistema portuale, senza nuovi oneri per la finanza pubblica. È una leva pubblica pensata per attrarre capitali privati e partenariati internazionali. Si tratta, a tutti gli effetti, di un investimento produttivo».

Che però comporta un cambiamento del modo di pensare, giusto?

«Beh, oggi noi a differenza di prima, dobbiamo andare a prenderci le merci in altri mercati e la strategia serve: non si può andare in India solo col porto di Trieste, ma con un paniere di possibilità da offrire. E poi sarà la merce a scegliere il porto dove approdare. Potremmo garantire la migliore offerta possibile se mettiamo insieme i nostri porti, altrimenti ogni scalo ha un suo competitor forte, come Barcellona, Marsiglia o il Pireo. Insomma, dobbiamo dimostrare di essere un paese in grado di pensare in grande, ma abbiamo una finestra temporale di 10 anni in cui il nostro know-how ci permetterà di stare al tavolo dei grandi. I mercati non aspettano: se non cogli le sfide quando si presentano, alla fine le perdi». —

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