Guerra in Iran, la nuova minaccia ai traffici passa dallo Stretto di Hormuz
Il conflitto mette in pericolo la via da cui transitano petrolio e gas del Golfo. Nel Nord Est gli effetti di una chiusura si sommerebbero a quelli già patiti dal blocco di Suez

Mentre lo scontro commerciale globale scatenato dai dazi di Trump si intensifica, il mondo rischia di trovarsi di fronte a una nuova grave crisi energetica. Cosa accadrebbe se la guerra in corso tra Israele e Iran, e nella quale da ieri sono coinvolti anche gli Stati Uniti, portasse alla chiusura dello Stretto di Hormuz, uno dei corridoi marittimi più strategici al mondo?
Secondo molti analisti, lo scenario sarebbe persino più grave del blocco del Canale di Suez, con il prezzo del petrolio proiettato verso la stratosfera e l’inflazione pronta a impennarsi. Sarebbe un’altra brutta batosta sulle economie occidentali nell’era dei conflitti.
Lo Stretto di Hormuz, una striscia d’acqua larga fino a 54 chilometri, rappresenta l’unico passaggio marittimo verso il Golfo Persico. Da qui transita una fetta fondamentale dell’energia mondiale: il petrolio e il gas provenienti da Iran, Iraq, Kuwait, Arabia Saudita e Bahrein. Finora il rischio di blocco minacciato dall’Iran, secondo Paese al mondo per riserve di gas naturale e quarto per quelle di petrolio (pari al 3% delle quote di export Opec per 3,3 milioni di barili al giorno), non ha ancora scatenato forti tensioni sui prezzi dell’oro nero.
Il motivo? Sui mercati c’è una sovrabbondanza di produzione globale che, come chiarisce l’Agenzia Internazionale dell’Energia, sta attualmente crescendo molto più rapidamente della domanda. Entro la fine del decennio il surplus potrebbe avere già raggiunto a questo ritmo gli 8 milioni di barili al giorno.
Ma quanto durerà questa stabilità mentre in Medio Oriente non cessano i lanci dei missili ipersonici? I mercati stanno in allerta. Le previsioni dicono che, se l’Iran bloccasse lo Stretto di Hormuz, il prezzo del greggio potrebbe addirittura raddoppiare a 150 dollari per barile. Oggi naviga intorno ai 76 dollari dopo una fiammata del 10% all’inizio del conflitto. Gli analisti di Goldman Sachs non hanno escluso però la possibilità che i prezzi superino i 90 dollari al barile nel breve termine, incorporando un premio per il rischio geopolitico più elevato ma «continuiamo a ipotizzare che non ci saranno interruzioni nell’offerta».
Di fatto la sola prospettiva di un blocco di Hormuz, che neppure durante la lunga guerra Iran-Iraq (1980-1988) fu chiuso, avrebbe un effetto dirompente. Secondo gli analisti di Société Générale «non si tratterebbe di un’interruzione della produzione, bensì della logistica, ma con conseguenze molto rilevanti comunque». Negli anni '80, la cosiddetta "guerra delle petroliere" tra Iraq e Iran danneggiò centinaia di navi da entrambe le parti. Nel 2019 attacchi con droni colpirono un impianto di lavorazione e un giacimento petrolifero in Arabia Saudita, interrompendo temporaneamente circa la metà della produzione di petrolio del Regno. Ma oggi lo spettro di un’escalation è più concreto.
Lo si vede anche dai noli marittimi già cresciuti del 30% secondo l’indice di settore, il Dwery di Londra, già vicino al livello di 4000. Anche il centro studi Srm (collegato al gruppo Intesa Sanpaolo) segue con attenzione la situazione. Il direttore generale Massimo Deandreis ribadisce l’importanza dello Stretto di Hormuz da cui transita il 27% del traffico marittimo mondiale di petrolio grezzo e raffinato: «È il principale checkpoint globale per il transito di energia fossile, con oltre 880 milioni di tonnellate caricate ogni anno».
Ma Hormuz non è solo petrolio. È anche una rotta cruciale per il traffico container, collegando i porti strategici degli Emirati Arabi, come Dubai e Abu Dhabi, con oltre 26 milioni di Teu movimentati. Non sorprende che Marsh McLennan, il più grande broker marittimo del mondo, abbia già registrato un aumento del 60% delle tariffe assicurative per le navi che transitano dallo stretto.
La guerra in Medio Oriente rischia così di scompaginare ulteriormente gli equilibri dei traffici globali, già messi a dura prova dal blocco del Canale di Suez causato dagli attacchi Houthi. Questi ultimi hanno spinto i grandi vettori (in particolare container e car-carrier) a circumnavigare l’Africa passando per il Capo di Buona Speranza. Una deviazione, spiega il centro studi Srm, che ha favorito i porti del Mediterraneo occidentale, in particolare quelli spagnoli e Tanger Med in Marocco, penalizzando invece il Mediterraneo orientale e scali come il Pireo o Port Said.
«Questa ambivalenza - chiarisce Deandreis - si è riflessa anche sulle performance dei porti italiani con gli scali liguri e del Tirreno che hanno registrato andamenti positivi e quelli adriatici con Trieste che invece hanno rallentato. Nonostante il protezionismo e le tensioni commerciali, Suez resta la rotta migliore tra Asia, Europa e costa Atlantica americana. Non solo perché più corta, ma soprattutto perché tocca tutti i grandi mercati di produzione, consumo e distribuzione mondiali. Mi auguro che la guerra tra Israele e Iran non aggravi ulteriormente la situazione dei traffici nel canale di Suez, dove passa una parte importante del nostro interscambio commerciale».
Intanto, le prime vere avvisaglie di crisi arrivano dal mercato del gas. Dallo Stretto di Hormuz transita circa il 20% del gas naturale mondiale, inclusi 123 milioni di tonnellate di Gnl. Come riportato dal Financial Times, l’Iran ha già ridotto la produzione nel gigantesco giacimento South Pars, colpito da attacchi israeliani. E questo preoccupa anche l’Occidente. Alessio Lilli, presidente della Siot (il terminal petrolifero di Trieste) e direttore generale della società dell’oleodotto transalpino Tal, conferma che l’attuale crisi sta già avendo un impatto sul prezzo dei prodotti petroliferi e dell’energia in generale.
Lilli, che dopo dieci anni di presidenza sta per passare il testimone ad Alessandro Gorla, descrive uno scenario economico più complesso: «La crisi energetica sullo sfondo della guerra in Medio Oriente si inserisce in un quadro di conflitti commerciali, con l’effetto combinato di dazi, rallentamento dell’economia cinese e stagnazione di molte economie occidentali. Se si riuscirà a scongiurare una guerra totale tra Israele e Iran, ritengo però che i prezzi torneranno a scendere, soprattutto nella seconda metà di luglio».
Anche Davide Tabarelli, numero uno di Nomina Energia, sottolinea che «quella tra Israele e Iran è una crisi storica ma per il momento i prezzi sono relativamente stabili, sempre che non ci sia appunto il blocco dello stretto di Hormuz». Situazione supportata dallo stesso rapporto dell’Agenzia Internazionale dell’Energia: la domanda globale di petrolio crescerà di 2,5 milioni di barili al giorno tra il 2024 e il 2030, raggiungendo un plateau di 105,5 milioni di barili giornalieri entro fine decennio. Tuttavia, l’offerta aumenterà a un ritmo ancora più rapido, con una capacità produttiva che supererà la domanda di oltre 8 milioni di barili al giorno».
L’Opec dispone di riserve per 5 milioni di barili, abbastanza insomma per rimediare alla perdita dell’export iraniano. Nonostante ciò la chiusura di Hormuz resta sullo sfondo come un vero pericolo che costringerebbe a cambiare ancora la mappa dei traffici globali.
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