Nuovo allarme delle fonderie: «Siamo sull’orlo del collasso»

Per il comparto, strategico per automotive e meccanica, la produzione è in calo del 12%. Fabio Zanardi, presidente di Assofond: «A rischio una filiera chiave, energia troppo cara»

Giorgio Barbieri

 

Il settore italiano delle fonderie sta attraversando una fase di criticità profonda. «Il comparto è sull’orlo del collasso e il principale responsabile è il costo dell’energia, che in Italia è il più alto d’Europa e crea un differenziale strutturale insostenibile con i competitor».

È il messaggio lanciato da Fabio Zanardi, presidente di Assofond e alla guida della veronese Zanardi Fonderie, di cui è presidente e amministratore delegato, intervenuto al convegno Amafond a Rezzato (Brescia). Un appello che riguarda una filiera strategica per l’intero sistema manifatturiero nazionale: le fonderie producono infatti componenti essenziali per automotive, meccanica, costruzione di macchinari, elettrodomestici e tecnologie legate alla transizione ecologica.

Oggi in Italia il comparto conta 861 imprese – 157 ferrose e 704 non ferrose – per un fatturato complessivo di 6,6 miliardi nel 2024 e una produzione superiore a 1,6 milioni di tonnellate di fusioni. Si tratta inoltre di una catena produttiva ad alta circolarità, fondata sul recupero e sul reimpiego di materiali, che negli ultimi anni ha rappresentato un modello avanzato di economia sostenibile applicata all’industria pesante. Nonostante questo, la crisi appare profonda: nel 2024 la produzione è diminuita del 12% e il fatturato del 13% rispetto all’anno precedente.

La crisi si evidenzia in modo ancora più netto se si prende come riferimento il 2018, ultimo anno prima delle grandi shock economici legati alla pandemia e alla crisi energetica. Da allora la produzione totale è scesa del 23%. Le fonderie ferrose hanno registrato una contrazione della produzione del 31,8% e una riduzione dell’8,7% delle imprese attive; quelle non ferrose hanno segnato un -10,4% sulla produzione e un calo del 18,7% nel numero di aziende.

Un segnale particolarmente allarmante riguarda il Nord Est, territorio dove il comparto è storicamente radicato e svolge un ruolo chiave nelle filiere metalmeccaniche. Tra Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Trentino ed Emilia-Romagna si stimano oltre 220 fonderie – di cui 108 in Veneto e 18 in Friuli Venezia Giulia – su un totale nazionale di poco inferiore al migliaio. Qui lavorano quasi 10.000 addetti, circa un terzo dell’occupazione complessiva del settore. In un’area tra le più manifatturiere d’Europa, l’impatto di un depotenziamento strutturale avrebbe effetti a catena su export, forniture industriali e tenuta occupazionale.

Al quadro produttivo si aggiunge la sofferenza economica. Secondo l’analisi dei bilanci elaborata dal Centro Studi Assofond, nel 2024 la marginalità si è assottigliata: l’Ebitda/ricavi delle fonderie ferrose è sceso al 6,4%, mentre per le non ferrose si attesta all’11%. Ancora più critico il rapporto Ebit/ricavi, che si ferma allo 0,6% per i produttori di getti ferrosi e al 4,2% per quelli non ferrosi. Livelli così bassi mettono in discussione la capacità di programmare investimenti, rinnovare impianti e sostenere aumenti salariali.

«Se non si interviene subito», ha concluso Zanardi, «non soccomberemo per colpa dei nostri concorrenti esteri, ma per colpa del sistema italiano. Occorre ridurre la pressione sui costi e garantire condizioni che consentano alle imprese di continuare a produrre e a crescere. Solo così si può riattivare un circolo virtuoso fatto di investimenti, sviluppo e lavoro di qualità».

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