L’oro di Bankitalia allo Stato? Ecco perché non è un buon affare

A parte l’ideologia e l’estemporaneità della proposta, si tratta di una mossa rischiosa: potrebbe rovinare i rapporti con l’Ue e con i mercati

Marco ZatterinMarco Zatterin
Il ministro dell'Economia, Giancarlo Giorgetti (foto Ansa)
Il ministro dell'Economia, Giancarlo Giorgetti (foto Ansa)

L’emendamento con cui la maggioranza intende ridare l’oro alla Patria stabilendo che «le riserve gestite e detenute dalla Banca d’Italia appartengono allo Stato, in nome del popolo italiano», è stato ritenuto ammissibile e dovrebbe essere votato con la Legge di bilancio a metà dicembre.

Nulla di strano, sin qui, visto che non richiede coperture e non impatta sui forzieri pubblici giudiziosamente blindati dal ministro del Tesoro, non nell’immediato. Quel che colpisce, a parte ideologia ed estemporaneità apparente della proposta, è però che si tratta di una mossa rischiosa.

Per due motivi: potrebbe avviare uno sgradevole contenzioso con l’Ue che si appresta a liberarci dalla procedura di deficit eccessivo; potrebbe incrinare l’atmosfera di fiducia dei mercati che Meloni & Giorgetti sono riusciti a ripristinare per la contabilità repubblicana nonostante il debito mostruoso che porta sul gobbone.

Wagner, geniale compositore tedesco in genere gettonato anche negli ambienti più conservatori, racconta nel prologo alla tetralogia de L’anello del nibelungo che l’oro nascosto in fondo al Reno fu la ragione di tutte le sciagure e le dannazioni determinate dalla cupidigia di uomini e dei.

È una metafora ricorrente da che si è cominciato a cumulare ricchezze; va presa per ciò che è, sebbene sia assodato che l’avidità tenda a comportare conseguenze che i saggi preferiscono evitare. Le storie, e la Storia, invitano comunque alla riflessione. E se non basta, con rilevanza ancora maggiore, c’è la forza del Diritto, con gli effetti d’una sua violazione che è bene non sottovalutare.

In pillole, la Banca d'Italia – indipendente per definizione – ha il compito di detenere e gestire le riserve ufficiali, costituite da attività finanziarie in valuta estera e oro di cui detiene la proprietà giuridica, ma che non può utilizzare come crede perché non è “roba sua”. In quanto «istituto di diritto pubblico» ai sensi della legge, ha l’obbligo di agire nell’interesse della collettività, il che rende l’oro già «del popolo», perché gestito dagli enti vincolati a rappresentarli.

Nel 1998, alla nascita dell’Unione monetaria, quando la Bce è stata incaricata di emettere e governare l’euro, si è deciso che le banche centrali dei Paesi aderenti trasferissero la proprietà (e non la localizzazione fisica) di 750 tonnellate di oro: Bankitalia ha contribuito con 141 delle 2.452 tonnellate possedute, dote costituita in prevalenza da lingotti (95.493). Posta la prevalenza del diritto europeo, il metallo giallo intestato a Francoforte serve a garantire la moneta comune, ovvero i soldi che abbiamo in tasca e in banca.

Alla luce di questo, nessuna capitale può decidere alcunché sulla titolarità dell’oro della sua banca centrale senza consultare la Bce (non risulta sia stato fatto) e, senza intesa, non può intervenire sulla proprietà giuridica delle riserve. Oltretutto, sarebbe una violazione di divieto del finanziamento monetario della finanza pubblica.

In assenza di motivazioni concrete e razionali che vadano oltre la distrazione di massa, qualcuno potrebbe interrogarsi sulla reale tenuta dei conti pubblici – «Usciranno dall’Eurozona? Vogliono far cassa facendo crollare il prezzo dell’oro?» – mossa imprevidente nel momento in cui tutti hanno motivi per pensare che non ci siano problemi. Per come è stata spiegata, la Patria che si riprende l’oro non è un buon affare. E se ci sono altri motivi occulti, è di nuovo l’anello del nibelungo.

Riproduzione riservata © il Nord Est