Bortoli, 51 anni in Lattebusche: dal viaggio in auto con il padre al miracolo da 160 milioni

Il 31 dicembre Antonio Bortoli lascerà dopo oltre mezzo secolo la carica di direttore generale: è l’artefice di quel piccolo miracolo che ha condotto una latteria di provincia a diventare la più grande cooperativa lattiero casearia del Veneto

Stefano Vietina
Antonio Francesco Bortoli, dg di Lattebusche
Antonio Francesco Bortoli, dg di Lattebusche

Siamo al passo d’addio dopo 51 anni di direzione generale di Lattebusche.

Antonio Francesco Bortoli, artefice primo di quel piccolo miracolo che ha condotto una latteria di provincia a diventare, in dieci lustri, la più grande cooperativa lattiero casearia del Veneto, lascerà l’incarico il 31 dicembre.

Al suo fianco in questi giorni il successore, Michele Miotto, classe 1963, proveniente dalla vicentina Zarpellon, che opera nello stesso settore.

«Poi io resto a disposizione del consiglio di amministrazione - dice Bortoli in questa intervista esclusiva – se riterranno di avere necessità di qualche parere. Metto a disposizione volentieri la mia esperienza, perché Lattebusche è la mia vita.

Ma adesso sono impegnato nel passaggio di consegne. Michele lo conosco e lo stimo da 35 anni; sono contento che lo abbiano voluto qui; adesso si tratta di introdurlo in una realtà complessa come la nostra cooperativa, che richiede una gestione diversa rispetto a una spa».

Ma come sta andando il settore? Qual è lo scenario?

«La chiusura dell'anno sarà diversa dai mesi precedenti – commenta Bortoli – perché, dopo due o tre anni di crescita, il latte segna il passo, con prodotti come Grana e burro con quotazioni in calo. Il nostro è un mercato da monitorare giorno per giorno, perché sono tante le variabili in campo».

Chiuderete comunque in crescita anche il 2025?

«L’obiettivo è arrivare ai 160 milioni di fatturato, dopo i 155 del 2024; ma come sempre gli ultimi mesi saranno determinanti per stabilire ricavi e redditività».

Un nuovo anno record?

«Di certo saremo in crescita, quindi il record sta nei numeri; di quanto sarà, lo vedremo. Ma la solidità dell’azienda che lascio rappresenta la mia più grande soddisfazione e credo la migliore eredità, se così vogliamo dire».

Come è nato il rapporto inscindibile con Lattebusche?

«Avevo 15 anni, andavo a scuola e mio padre, Francesco Giuseppe, classe 1902, durante l’estate mi portava con sé in estate nello stabilimento di Busche di cui era direttore. Il lavoro, all’epoca, era interamente manuale: passai feste e vacanze a raschiare il formaggio e oliarlo; oppure al ricevimento latte: c’era una cassetta con dentro i libretti dei soci, ogni pagina un nome, e sotto ciascuno il quantitativo di latte conferito due volte al giorno, mattina e sera; io dovevo tirar giù i dati».

Quindi è figlio d’arte?

«Eh già. A Busche mio padre arrivò nel 1960, veniva da Bressanvido, nel Vicentino, dov’era stato direttore del locale stabilimento della Polenghi Lombardo. Un giorno mi firmò la giustificazione per la scuola e mi fece montare sulla nostra vecchia giardinetta per accompagnarlo a vedere il formaggio a Busche. L’ultimo tratto lo percorremmo tra due autentiche muraglie di neve più alte della macchina… Un mese dopo iniziò l’incarico da direttore».

Il suo ingresso in Lattebusche?

«All’epoca si chiamava ancora Latteria sociale cooperativa della vallata feltrina, e vi entrai nel 1970 come impiegato, mentre ancora studiavo Economia a Venezia; poi nel 1974, già laureato, partecipai al concorso, sei mesi di prova e entrai in pianta stabile come direttore».

Su cosa puntò all’inizio? «Per prima cosa feci il giro delle piccole latterie, una per una, ed erano decine, per convincerle ad una collaborazione o ad entrare nella nostra cooperativa e così arrivare a una congrua quantità di latte raccolto. Il primo risultato fu zero adesioni; era il tempo dei forti campanilismi. Però poi il fronte del no si ruppe e la crisi generale del settore lattiero-caseario del 1979 fece il resto. Perché, come spesso accade, è proprio nei momenti di crisi che emergono le capacità di affrontarle con soluzioni innovative».

Ovvero?

«Rovesciammo la prospettiva e anziché guardare dai cancelli verso lo stabilimento, girammo lo sguardo all’esterno per capire le esigenze del consumatore, l’evoluzione dei suoi gusti e sforzarci di cogliere le necessità dei distributori: sia del negozio tradizionale sia nell’emergente Gdo».

E quindi?

«Riuscimmo a dare vita a una rete distributiva per la provincia e allargammo la gamma delle nostre produzioni. Questa scelta comportava quasi l’obbligo di impostare una linea di comunicazione con il consumatore. Cambiammo nome in Lattebusche: Buschelat, l’alternativa, ricordava troppo Parmalat. Poi non avendo soldi ci demmo da fare per mettere assieme una serie infinita di piccole sponsorizzazioni, specie nel mondo delle società sportive, dalla pallavolo allo sci, dalle bocce alla corsa campestre. Ma soprattutto valorizzammo il latte dei soci».

In che modo?

«Siamo stati i primi a pagare il latte ai nostri soci di allora secondo una rigorosa tabella che teneva conto degli aspetti chimico-fisici ed igienico-sanitari. Poi abbiamo sempre privilegiato la qualità in ogni ambito aziendale: dai prodotti finiti, alle scelte impiantistiche a quelle di comunicazione; e l’innovazione, introducendo elementi nuovi che in vari momenti ci hanno dato un vantaggio competitivo. Nel 1991 realizzammo il primo impianto con elevato grado di automazione in Italia per la lavorazione di prodotti da sei chilogrammi, caratterizzato da vantaggi economici e certezze igienico sanitarie; sempre a inizio anni Novanta introducemmo le prime certificazioni. Abbiamo anche perseguito le aggregazioni di altre cooperative così, nel 1985, oltre l’80 per cento del latte della provincia di Belluno era concentrato per la trasformazione a Busche. Ma non potevano fermarci lì».

Parola d’ordine: aggregare.

«Il Bellunese, per numero di abitanti, non era in grado di recepire la produzione di latte e derivati a prezzi vantaggiosi per i produttori. Bisognava creare nuovi mercati fuori dei confini provinciali. Aprimmo un dialogo con la Clodiense, un’azienda sana e ben introdotta non solo sul mercato di Chioggia, ma anche in una parte del litorale veneziano e soprattutto nel centro di Padova: loro erano carenti nella produzione di latte dai soci, noi nella presenza territoriale. In un mese varammo la fusione».

A cui ne seguirono molte.

«Nel 1988 a Sandrigo, quella con la locale latteria Brega ci ha aperto le porte del Vicentino, zona per noi strategica. Poi a Padova, nel 2009, incorporammo la latteria Molinetto di San Pietro in Gù, portando a casa anche una ulteriore quota del 30% in Agriform (società cooperativa di secondo livello per la stagionatura, il confezionamento e la commercializzazione di formaggi tipici, in quota importante all’estero, ndr) oggi diventata GranTerre, di cui siamo arrivati a possedere il 44,5 per cento del capitale».

Puntando sempre sul marchio Lattebusche?

«Sì, abbiamo sempre seguito la logica delle aggregazioni per incorporazione, mantenendo quindi il marchio Lattebusche, che voleva anche dire accettarne le regole; ispirate da un solo principio guida, e cioè portare al massimo possibile la redditività per i produttori agricoli. E questo perché in montagna molto più e molto prima che in pianura, o porti a casa soldi, o le aziende agricole chiudono. Poi sono seguite le latterie di Camazzole e di Padola; e fondamentale è stata la catena dei dieci Bar Bianco, punto vendita, ma anche strumento di comunicazione con la clientela».

E ora l’addio.

«Ho lavorato fin da ragazzo sempre in questa azienda e per questa azienda; però mi pare di aver cambiato parecchie volte luogo di lavoro, tale è stato lo sviluppo e tali sono state le trasformazioni che ho conosciuto lungo questo percorso».

Senza mai cedere alle lusinghe della politica.

«Già – sorride – mi hanno chiamato praticamente tutti i partiti per offrimi incarichi a livello regionale o nazionale, ma ho sempre detto no, perché Lattebusche è casa mia, questa è la mia gente, questo è stato il mio impegno. E mi faccia ringraziare tutti i miei collaboratori per il loro impegno professionale e tutti i soci per la fiducia che mi hanno confermato in questi anni».

E ora? Valorizzerà la sua esperienza per proporre qualche altra acquisizione?

«Vedremo. Lattebusche è sempre stata attenta alle opportunità. Vedremo».

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