Bonomi: «A Nord Est diversi gruppi dal potenziale miliardario. Serve coraggio»
Intervista al fondatore di Investindustrial, protagonista di importanti acquisizioni in Veneto: «Gli imprenditori capiscono bene il nostro modello»

«Se ragioni come un finanziere, l’azienda ti percepisce come un essere estraneo e ti rigetta. Se invece fai comprendere che pensi come un industriale, allora ce la fai». In un Nord Est dove non passa settimana che un’azienda familiare venga ceduta, Andrea Bonomi racconta le molte operazioni che lo vedono protagonista sul territorio. La società d’investimento che ha fondato trentacinque anni fa, Investindustrial, sta infatti giocando un ruolo centrale nella trasformazione dell’economia nordestina, in particolare del Veneto.
Qualche esempio: cinque anni fa ha rilevato la trevigiana Della Toffola, specializzata in macchinari per l’imbottigliamento, all’epoca 140 milioni di fatturato, e a suon di acquisizioni è diventata la Omnia Technologies, 740 milioni di giro d’affari e un quartier generale nuovo di zecca a Signoressa di Trevignano. Nel 2024 è entrata nella Piovan Group di Santa Maria di Sala, gioiello industriale nei sistemi di automazione per la produzione di polimeri. E ancora, a fine 2024, ha dato sostegno alla famiglia toscana Bagnoli nell’aggregazione tra la Sammontana e la Forno d’Asolo, entrando nel capitale della nuova Sammontana Italia, che sfiora il miliardo di fatturato.
Cosa contraddistingue le operazioni di private equity di Investindustrial?
«Il fatto che gli imprenditori capiscono bene il nostro modello. Investindustrial è nata per dare risposte ai problemi di molte medie imprese, come la cronica mancanza di capitale, la necessità di evolvere da una gestione familiare a una manageriale, la scarsa conoscenza dei mercati più lontani. Le operazioni funzionano se la proprietà, il management, la comunità, ti danno fiducia. E poi, venendo da una famiglia di imprenditori, capisco benissimo cosa vuol dire l’orgoglio di una famiglia che ha fondato un’impresa e vuol continuare a viverla giorno dopo giorno. Abbiamo molto rispetto per chi l’ha condotta fin qui. In più portiamo il coraggio di rischiare, un tratto un po’ milanese del nostro modo di fare: quando fai un investimento, non puoi sapere prima come andrà a finire il percorso che vuoi iniziare».
Come è stata possibile la crescita tanto accelerata di Omnia Technologies?
«Abbiamo portato una squadra manageriale forte, che aveva già dato prova di sé. Ma questo non sarebbe bastato: quando siamo entrati, avevamo già studiato diverse acquisizioni per espanderla subito. Questo avviene perché in Investindustrial c’è una squadra di 230 persone in nove uffici fuori dall’Italia che aiutano le partecipate su vari fronti, mercati internazionali, supply chain management, data analytics, e così via. Altre volte - l’esempio è Piovan, che aveva già compiuto una parte del percorso per essere globalizzata - il management interno è già all’altezza della sfida. Grazie a noi, però, può avvalersi di un aiuto che prima non aveva. Quando ci siamo incontrati con Nicola Piovan, il suo desiderio era far crescere la sua azienda. Ha reinvestito nella società e, ora, Piovan Group può contare anche su un nostro team, in aggiunta alla visione di Nicola».
Dove possono arrivare percorsi di crescita come questi?
«Le faccio l’esempio delle conserve di pomodoro La Doria. Quando nel 2021 abbiamo investito, fatturava 900 milioni ed era considerata un business stabile. Abbiamo intuito, insieme alla famiglia Ferraioli, che aveva due punti di forza molto rilevanti, ovvero una piattaforma logistica in Gran Bretagna e una in Germania, e che a livello mondiale c’era l’enorme mercato dei private label, molto frammentato. Oggi si chiama Windoria ed è nata dall’unione con un’altra nostra partecipata, Winland Foods, che è uno dei principali produttori statunitensi di private label e marchi alimentari. Fattura quasi 4 miliardi di dollari e la scorsa settimana ha firmato un accordo per l’acquisto di Al-Fursan, un produttore saudita di salse e condimenti. In Arabia Saudita è la prima volta che una società partecipata da un gruppo europeo fa un’acquisizione di maggioranza di un operatore locale».
Gli imprenditori che vendono reinvestono spesso nell’azienda che comprate?
«Sì, e per noi è un bene. Deve considerare che non facciamo aste. Il nostro discorso è diverso: offriamo un certo prezzo ma poi, con il nostro lavoro, possiamo valorizzare al meglio la quota che viene reinvestita. Ci interessa avere gli imprenditori con noi perché tratteniamo le loro competenze e facciamo sì che possano continuare a sentirsi orgogliosi dell’azienda, onorando la memoria dei fondatori».
Che cosa vuol dire che non fate aste?
«Le aziende non sono merce: devono essere cedute al corretto investitore ad un prezzo giusto. Se guardo la norma dei nostri 35 anni di attività, raramente facciamo aste».
Investitori più speculativi pagano di più?
«A volte mettono più debito, in media cinque o sei volte l’ebitda, mentre per noi in media 3,5 volte. Tutto ciò che metti in più sul prezzo, finisce però in indebitamento aggiuntivo dell’azienda, che così diventa troppo statica. Noi vogliamo aziende capaci di crescere con flessibilità».
Torniamo all’esempio di Omnia. Una volta completato il percorso con voi, che cosa accadrà?
«Un percorso di questo genere potrebbe, nel medio-lungo periodo, portare alla Borsa, il luogo naturale per le aziende che vogliono continuare a crescere. In questo momento preciso, però, la Borsa italiana secondo me deve ripensarsi».
In che senso?
«Ha aziende troppo statiche. Dovrebbero essere quotate quelle che vogliono crescere, battersi a livello globale. Finora però si sono quotate spesso imprese che dovevano sistemare questioni di passaggio generazionale, con l’ossessione di conservare almeno il 51 per cento, un discorso da anni Settanta. Invece in Italia ci sono numerose imprese dalle potenzialità molto elevate».
Si dice che qui non nascono unicorni, le società che arrivano a una valutazione di un miliardo di dollari prima della quotazione in Borsa.
«Invece ce ne sono parecchi, forse un centinaio. Soltanto noi, nel nostro portafoglio, ne abbiamo una decina. Il punto, però, è che per essere attraenti per il mercato devi valere dai due miliardi in su. Questo è il nostro obiettivo, portarne alcune a un valore di 4-5 miliardi prima di quotarle. E il Nord Est da questo punto di vista è molto promettente. Le aziende in cui abbiamo investito qui già oggi fatturano complessivamente 3,8 miliardi, hanno 30 stabilimenti produttivi e 10.200 dipendenti».
Nell’aggregazione fra Sammontana e Forno d’Asolo avete accettato di essere partner di minoranza della famiglia Bagnoli.
«C’è un valore importante in azienda. Abbiamo portato l’opportunità Forno d’Asolo con un management ambizioso che, con la nostra conoscenza del mercato americano, sprigionerà ulteriore potenziale. Consideri che per le aziende in portafoglio il Nord America è il primo destinatario degli investimenti. Quando mi chiedono perché abbiamo investito in Eataly, che in Italia fatica, rispondo che per l’azienda l’Italia è la patria irrinunciabile ma che le prospettive sono all’estero. Abbiamo aperto i primi due Eataly Caffè a New York e contiamo di aprirne altri a breve: l’obiettivo è adattarsi alle esigenze dei centri città».
Cosa serve perché i potenziali unicorni italiani arrivino finalmente in Borsa?
«Un po’ di riforme. Molti parlano di tassazione ma il problema non è questo, ormai da questo punto di vista l’Italia è uno dei Paesi migliori. Serve più certezza del diritto. In questo momento la reputazione internazionale dell’Italia è alta: non dobbiamo perdere l’occasione di ricostruire il rapporto tra le istituzioni, gli investitori e gli imprenditori. I quali, per parte loro, devono credere maggiormente nelle loro aziende».
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