L’Armani del vino che Re Giorgio voleva cancellare dalle etichette

Albino Armani è il titolare di un’azienda da 3 milioni di bottiglie che fa capo alla famiglia dal 1607 e che oggi fattura 40 milioni, realizzati per l’80% all’estero

Maurizio Cescon

 

La famiglia Armani fa vino nella Val dAdige da oltre 400 anni, come documentato nell’atto in latino del notaio Andrea Pedroni, che porta la data del 7 dicembre 1607 e certifica il passaggio dei beni del fu Simone al figlio Domenico tra cui «una arativa e vignata nella regola di Manzano». Ma quel cognome, lo stesso dello stilista icona del Made in Italy, ha corso il rischio di sparire dalle etichette, pochi anni fa. Albino Armani, 66 anni, ultimo discendente di venti e più generazioni di vignaioli, non ha mai raccontato la vicenda che avrebbe potuto cambiare il corso della sua vita.

«Ero giovane, pieno di entusiasmo e pronto a spaccare il mondo - dice seduto a un tavolo di legno massiccio nella showroom della sua cantina di Sequals, il paese di Carnera, in Friuli - e un giorno mi arrivò una lettera che fu come una legnata nei denti: era la diffida degli avvocati di Giorgio Armani. Mi intimavano di non utilizzare più il mio nome nella commercializzazione dei prodotti. I marchi protetti, in Italia, godono di una normativa di grande favore, proprio perché rappresentano il meglio del Paese a livello internazionale».

Sembrava una sfida impari. Eppure tra l’Armani vignaiolo e l’Armani della moda, finì con un accordo che soddisfò entrambi, dopo anni di trattative e limature, ma che soprattutto è sempre valido. «Del contratto sono contento - afferma - sono libero di vendere vino in tutto il mondo con il mio nome e cognome e ho l’esclusiva. Lui infatti, non può fare vino con il nome Armani. I tempi sono cambiati, forse oggi un agreement così non lo firmeremmo più. Anche se noi avevamo e abbiamo le nostre buone ragioni, visto che siamo nell’enologia dal 1607». Curiosamente re Giorgio e il vignaiolo Albino condividono anche lo stesso buen retiro vacanziero, Pantelleria. «Non ci siamo mai presentati - aggiunge - io sono uno schivo, non amo i riflettori. Ci siamo però incrociati più volte, l’isola è piccola».

Oggi Armani è una delle poche aziende trasversalmente nordestine. Origini in Trentino, ad Ala e in Val di Gresta, ha terreni in Valpolicella, nel Veneziano e in Friuli. In tutto 450 ettari vitati, 230 dei quali nella pedemontana del Pordenonese, fra Tauriano, Valeriano e, appunto, Sequals . Vigneti curatissimi che circondano la cantina, un’ottantina di dipendenti, tre enologi («io sarei il quarto, sono laureato in Scienze agrarie a Bologna»), oltre 2 milioni di bottiglie l’anno con il marchio principale, più un altro milione di Pinot grigio e Prosecco grazie a collaborazioni con Mionetto negli Stati Uniti, 40 milioni il fatturato 2024. «Vendiamo l’80% delle nostre produzioni all’estero - spiega - in particolare negli Stati Uniti e in Nord Europa. Anche il mercato russo tiene, nonostante tutto. In Italia commercializziamo il restante 20%, solo nel canale Horeca».

I dazi Usa fanno paura, se verrà confermato che anche sul vino ci sarà il 15%: «Sono numeri brutti, ma è meglio una certezza rispetto all’incertezza di qualche giorno fa. Dobbiamo rimboccarci le maniche, provare ad assorbire questo aggravio. Il momento non è facile. I costi sono aumentati e i margini assottigliati. Ma ripeto, adesso che c’è la vendemmia, è meglio sapere cosa ci attende piuttosto che vivere nell'incertezza». «Il Prosecco», continua, «sta trainando da anni l’economia del Nord Est e il 32% delle bottiglie finisce nel mercato Usa, mentre il 50% del Pinot grigio delle Venezie è destinato a enoteche e ristoranti oltreoceano. Facile dire troviamo mercati alternativi, ma come si fa in tempi così brevi? E soprattutto dove si va?».

Albino Armani, grazie al suo pragmatismo, è stato l’artefice della costituzione del Consorzio Pinot grigio delle Venezie, la più grande Doc d’Italia con i suoi 27 mila ettari tra Trento, Veneto e Friuli Venezia Giulia, sempre il Nord Est che ritorna, come un pensiero fisso, e fa da collante alle iniziative più virtuose. «Sei anni alla presidenza e quattro prima per promuovere l’idea e farla diventare progetto - racconta - , sono stati un grande sacrificio personale. Una cosa impattante dal punto di vista umano, ma ci credevo e lo rifarei. Nelle tre regioni ho trovato una complessità di sistema, ci sono mentalità diverse, non è stato facile. Ma il risultato è che oggi mettiamo in vendita 300 milioni di bottiglie con la fascetta, controllate e certificate, che possono garantire valore al vino».

Un’altra delle passioni dell’imprenditore è il recupero e la conservazione di uve e vigneti dimenticati. Del resto per chi fa vino da venti e più generazioni (il futuro è rappresentato dal figlio Federico) è quasi un dovere. «Non so se siamo i più antichi viticoltori della Val d’Adige - dice ancora -, ma la continuità, di padre in figlio, credo sia unica: gli atti che custudiamo negli archivi sono scritti prima in latino, poi in tedesco, alla fine in italiano. Nella zona di Borghetto all’Adige, in Comune di Avio, abbiamo vigne che hanno un secolo. I miei avi le piantavano a una distanza di 15 metri una dall’altra, in mezzo si coltivava frumento, patate, carote, broccoli e altri ortaggi. Il vino era solo un complemento, utile per il sostentamento delle famiglie. Mi piace ripristinare le vecchie varietà, in Friuli l’Ucelut, il Picolit neri, lo Sciaglin, in Trentino il Negrara, il Peverella, il Foja Tonda e altri».

Personaggio poliedrico, Armani, anche nelle passioni extra lavorative. Il profilo Facebook è pieno di di avventure ai confini del mondo. «Sono viaggi dell’anima - rivela - in territori poco antropizzati, semi sconosciuti, dove la natura è selvaggia e dove il leit motiv, spesso, è la montagna». Un gruppo circoscritto di amici, i mezzi - moto o jeep - che si recuperano sul posto e mille mete raggiunte, dalla Groenlandia all’Oman, dall’Himalaya al Perù, dal Tibet al Kirghizistan. «Ho percorso migliaia e migliaia di chilometri di sterrati e di deserti - conclude - , non si tratta di vacanze, quando si torna si è stravolti, ma arricchiti».

Riproduzione riservata © il Nord Est