«La nostra Nice Footwear, un progetto industriale per le seconde generazioni»
Il fondatore e ad Bruno Conterno racconta la logica che muove le acquisizioni del gruppo calzaturiero

Bruno Conterno prende una scarpa da donna dalle cuciture impossibili e dal prezzo, in negozio, di centinaia di euro. «Non le dico l’impegno che ci vuole per fare queste. Eppure è così che il Made in Italy può avere un futuro: se si resta nella fascia bassa, non c’è futuro». Conterno è il fondatore e amministratore delegato di Nice Footwear, il gruppo padovano che sta aggregando una serie di aziende artigianali nel settore delle calzature ed è diventato il fornitore di alcuni dei marchi più conosciuti, dalle sneaker alle scarpe eleganti da donna. Parla nello stabilimento di Padova che ospita il quartier generale e la cosiddetta “manovia”, dove gli addetti fabbricano una ad una le scarpe che finiranno nelle vetrine delle griffe.

Com’è iniziata la sua carriera da imprenditore?
«Ho iniziato nell’azienda di famiglia, la Favorita Marmi e Graniti di Vicenza, come molti in Veneto. Poi mio padre decise di uscire, lasciando l’azienda a mio zio e ai miei cugini».
E lei?
«Era il 2008, avevo 25 anni, un amico mi propose di lavorare nella moda. Già nell’azienda di famiglia lavoravo sui mercati asiatici e avevo realizzato quanto possedere un marchio possa generare valore, facendo crescere i prezzi del prodotto. Iniziai come consulente specializzato nell’organizzare le catene di fornitura».
Fu così che nacque l’idea di Nice Footwer?
«Il primo passaggio fu quello di stabilizzare la mia situazione, nel 2012, quando nacque mia figlia. Iniziai a lavorare per la Alm di Vicenza, che produceva scarpe da calcio e possedeva il marchio Kronos, quello delle scarpe di Totò Schillaci ai mondiali di Italia 90. Quando quattro anni più tardi andò in concordato, decisi di rilevarla. Trovai i soldi ipotecando tutto quello che avevo, compresa la casa appena comprata. C’erano sette dipendenti e facemmo un contest per vedere chi trovava il nuovo nome dell’azienda. Ci piacque Nice ma, essendoci già il gruppo dei cancelli elettrici, aggiungemmo Footwear».
Come fu l’inizio?
«Fin dall’inizio l’idea era poter essere in grado di fornire ai brand un prodotto chiavi in mano, partendo dal design, sviluppando la catena di fornitura e arrivando alla consegna del prodotto finito. Passare dalle scarpe da calcio alle sneaker era complesso, dovevo capire le necessità dei clienti ed ebbi la fortuna di incontrare Francesco Torresan, che oggi è il mio socio e il Chief Operation Officer di Nice Footwer. Veniva dalla Lotto e aveva idee molto innovative. La nostra forza, fin dall’inizio, è stata quella di creare un processo fortemente strutturato, con software proprietari e tecnologia. Il successo fu immediato, il primo anno fatturammo 7 milioni».
Non solo scarpe da calcio?
«No, i nuovi clienti per le sneaker arrivarono quasi subito. Con il tempo ci siamo concentrati su questa categoria, dove gli spazi di crescita erano superiori e dove esistevano griffe interessate a proporre scarpe loro, senza essere in grado di produrle da sole».
Poi arrivò la Borsa.
«Sì, nel 2021, quando eravamo arrivati a un giro d’affari di 24 milioni. Ci affermammo come la miglior Ipo dell’anno sul mercato che oggi si chiama Growth, un grande risultato. All’epoca si parlava solo di digitale o biotech, la nostra operazione dimostrò che in un settore per i mercati quasi anacronistico si poteva proporre una storia di innovazione, dando visibilità alla componente tecnologica».
Ci spiega questi processi?
«Partiamo da un’analisi del mercato, studiando cosa fanno i competitor. Poi passiamo al brand del cliente, elaborando le sue esigenze e creando un piano di merchandising. Siamo in grado con i nostri software di proporgli una collezione digitale, dove può valutare tutte le caratteristiche di ogni variante, fin nei dettagli. In questo modo quando passi al campionario, una fase molto costosa in cui devi produrre un singolo prototipo con tutte le variazioni possibili, la possibilità di buttare via tutto scende dall’89-90% al 5-10, riducendo tempi e costi. Poi c’è tutta la parte industriale del progetto, dalla definizione della catena di fornitura alla consegna del prodotto».
Con la Borsa iniziano anche le acquisizioni?
«Dopo il Covid ci siamo posti la domanda se volevamo continuare a basarci sull’outsourcing della produzione, come facciamo ancora per le sneaker, oppure se volevamo entrare nella produzione, ipotesi che poteva funzionare solo con i prodotti di lusso. La risposta è stata prima l’acquisizione di Favaro Manifattura Calzaturiera, eccellenza della Riviera del Brenta nella produzione di scarpe da donna, poi della Emmegi di Padova, specializzata nelle borse di alta gamma».
Perché nel 2023 avete abbandonato Piazza Affari?
«Volevamo fare altre acquisizioni ma il titolo era fortemente sottovalutato. È un problema serio per le Pmi italiane, perché le contrattazioni sono poche. La nostra capitalizzazione di mercato era di 34 milioni, pochi per poter chiedere risorse al mercato. Non mi fraintenda: è stata un’esperienza importantissima per noi, ci ha permesso di presentarci nel modo giusto da brand che non ci avrebbero mai aperto le porte. E ci ha fatto incontrare Palladio Holding, che essendo veneta ha capito il senso di costruire qui una filiera completa. Hanno rilevato il 25% di flottante tramite un’Opa e poi hanno sottoscritto un aumento di capitale per salire al 51».
Che cosa vi siete detti con Torresan di fronte all’idea di scendere in minoranza?
«Ci siamo chiesti se volevamo giocare in Champions League o se preferivamo restare protagonisti in serie B. Abbiamo scelto la prima strada».
Quando ha investito Palladio Holding, in termine di capitale per lo sviluppo?
«Ci ha fornito 9 milioni di risorse, in modo da poter programmare le nuove acquisizioni. Per un po’ siamo rimasti fermi, non trovavamo target adeguati. Il nostro obbiettivo è portare con noi il management team della società, che deve e aver già compiuto il passaggio generazionale. Pensiamo che sia importante dare alle seconde generazioni la possibilità di esprimersi in modo più affine ai loro interessi. Per questo puntiamo sempre ad acquistare una quota attorno al 70%: se a loro resta il 30, è una partecipazione sufficiente per farli partecipi dei futuri sviluppi. In cambio diamo accesso alle nostre competenze. Oggi, quando ti rivolgi a una griffe, danno per scontato che tu faccia bene le calzature. Quello che ti chiedono è la certificazione della supply chain, i processi di sostenibilità, il welfare per i dipendenti e sistemi digitali e di logistica evoluti ed efficienti».
Nell’ottobre scorso avete definito l’acquisizione di due altri calzaturifici da donna del Brenta, Dyva e Corrado Maretto, poi di recente il Tomaificio Emmepier. Pensate di abbandonare le sneaker?
«No, anzi, magari ci muoveremo anche lì. Però oggi nelle sneaker lo sviluppo è soprattutto interno, investiamo in maniera continua sui processi».
Avete detto che il fatturato aggregato passerà dai 44 milioni del 2024 a 90-100 milioni (Nice Footwear chiude il bilancio ad aprile, ndr). Indicazioni sul bilancio 2025?
«La previsione è confermata ma i numeri precisi li vedremo più avanti, approveremo il bilancio in autunno».
Sarà un bilancio in utile?
«Sì, certamente. L’azienda è solida e redditizia».
In Italia sono cresciuti due gruppi di fornitori per la moda, Minerva Hub e Florence. Sono esempi per voi?
«La differenza è che noi siamo un aggregatore industriale, mentre in questi due casi a guidare le acquisizioni sono soggetti di natura finanziaria. Per il nostro progetto, la logica finanziaria non andrebbe bene. Le aziende che abbiamo comprato erano sane, non in vendita. Hanno scelto di condividere un progetto che conserva la natura artigianale ma le proietta in un’altra dimensione».
La neonata RIR Face Design, di cui è fondatore e presidente, come si pone rispetto alla crescita della vostra azienda?
«È destinata alle Pmi del distretto calzaturiero del Brenta, con l’obiettivo di far crescere anche loro. Non vogliamo essere leader in un territorio che muore. Grazie alla RIR gli artigiani, bravissimi nel fare ognuno i tacchi, il taglio della pelle, le solette, devono poter accedere a quei servizi che permettono loro di stare in un mercato che si fa sempre più complesso. Più in prospettiva, però, sarà importante il contributo che potrà venire dalle Università di Venezia e di Padova e dal Cnr, che abbiamo coinvolto nell’iniziativa per aiutarci a fare un salto competitivo». —
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