Francesco Micheli: «Al Nord Est serve un vero regista per crescere»

Finanziere e mecenate, è uno dei protagonisti della storia economica italiana: «Un territorio di grandi imprenditori cresciuti senza una visione collettiva»

Giorgio Barbieri
Francesco Micheli, 87 anni, finanziere e mecenate
Francesco Micheli, 87 anni, finanziere e mecenate

Dalle grida di Piazza Affari, quando ancora c’erano gli agenti di cambio, alle grandi scalate finanziarie. Da Eugenio Cefis e Enrico Cuccia a Roberto Calvi e Gianni Agnelli, passando per la Scala di Milano e lo Shenandoah, un magnifico veliero di 54 metri a tre alberi costruito nel 1902.

Se la parola scalata in Borsa è diventata ormai di uso comune lo si deve soprattutto a Francesco Micheli, 87 anni, uno dei protagonisti della storia finanziaria del nostro Paese. Ha pubblicato l’autobiografia “Il capitalista riluttante. Confessioni dal cuore del potere” (Edizioni Solferino) dove, oltre a ricostruire più di mezzo secolo di finanza italiana, descrive i vizi e le virtù dei suoi protagonisti e dedica un’attenzione particolare al Nord Est.

Non solo per motivi familiari (la mamma Lelia era originaria di Padova), ma anche per l’amicizia con Silvano Pontello, definito come «uno degli ultimi banchieri italiani», nel corso di una stagione in cui è entrato in contatto anche con i principali nomi dell’imprenditoria di un territorio che, rimasto orfano di grandi banche, ora è un semplice spettatore delle partite finanziarie che stanno infiammando il mondo bancario.

Nel libro racconta molti retroscena sul potere italiano. Quali le differenze rispetto a quando ha iniziato a Piazza Affari?

«Oggi non esistono più i cosiddetti “poteri forti” come li abbiamo conosciuti nel secondo Novecento. Un tempo, solo pensare di fare operazioni fuori da certi meccanismi era considerato quasi un sacrilegio. La ricaduta della scalata Bi-Invest nel 1985, al di là della rilevanza economica dell’operazione, ha rappresentato la rottura dei vecchi schemi di potere proponendo un modello aperto, in sintonia con i mercati anglosassoni dove le scalate erano cosa da tutti i giorni. In Italia invece c’erano i patti di sindacato che cristallizzavano il controllo, spesso con sistemi opachi e in conflitto d’interesse. Oggi la situazione è molto migliorata. I fondi di investimento arrivarono proprio nei giorni della Bi-Invest. E fu l’ internalizzazione, che in altri paesi era arrivata da decenni».

La sua è stata davvero una “vocazione riluttante”?

«Sì, nel senso che vivevano in me mondi diversi. Il mio modello, fin da giovane, era quello di Raffaele Mattioli, presidente illuminato della Comit, allora l’istituto modello, il primo ad avere l’Ufficio Studi, asilo di grandi personaggi. Inventò Mediobanca, destinata al sostegno delle piccole e medie imprese che rappresentano l’ossatura portante del nostro Paese. Ma la affidò a Enrico Cuccia che tradì da subito quella missione. Rubare ai poveri per sostenere i ricchi, il contrario di Robin Hood. Mediobanca fu il potere assoluto grazie al potere formale affidato a “debitori di riferimento”, ammessi in un salotto buono e in grado di indirizzare i Cda delle partecipate secondo logiche di controllo più che di crescita».

E le imprese hanno perso competitività.

«Certamente. Molte Pmi avrebbero potuto essere accompagnate in percorsi di sviluppo. Ma il capitalismo italiano ha un’altra tara di fondo: una giungla di oltre 200.000 leggi e regolamenti che fanno perdere tempo, la risorsa più preziosa. In Cina si costruisce un porto in sei mesi, da noi servono sei anni. Eppure esistono in Italia oasi di efficienza che vanno sostenute in un mondo finanziario che si sviluppa sempre più rapidamente. Ne sono coinvolto con Nextalia, oggi il maggior attore nel sostegno e sviluppo di un tessuto imprenditoriale che merita».

Ha conosciuto da vicino l’imprenditoria del Nord Est. Cosa la colpisce ancora di questa realtà?

«Esisteva – ed esiste ancora – un “sacro fuoco” nel cuore di ogni imprenditore. Le famiglie lavoravano unite, un modello autentico, quasi artigianale, capace di competere a livello internazionale. Tuttavia vivevamo in un’epoca in cui l’ascensore sociale, oggi completamente fermo, funzionava a meraviglia tanto che orfanelli come Rizzoli, Mondadori o Del Vecchio ebbero la possibilità di arrivare, grazie al loro spirito imprenditoriale, ai piani industriali più alti del potere finanziario italiano».

È stato amico di Silvano Pontello, l’uomo che ha fatto grande Antonveneta. Che ruolo ha avuto nella crescita di questo territorio?

«Silvano è stato uno dei massimi banchieri del suo tempo. Nel 1996 conobbi Antonio Ceola, Giorgio Cirla, Giustina Destro e Pontello mi fece cooptare nel Cda dell’Antonveneta che univa in matrimonio l’Antoniana e la Popolare Veneta. Mai avremmo potuto immaginare che quel gioiello sarebbe diventato la preda che, di cacciatore in cacciatore, avrebbe fatto stramazzare la più antica banca italiana, il Monte dei Paschi. La malattia colpì Pontello nel momento più delicato per un banchiere che aveva visione chiarissima. In un istante fu distrutto un modello di banca che, pur non avendo la grandeur di altri istituti di sistema, giocava un ruolo di primo piano nel contesto nazionale, come nella vicenda Telecom».

Perché, a differenza dell’Emilia Romagna dove hanno sede banche e assicurazioni, il Nord Est è spettatore nella sfida finanziaria?

«Forse è mancato proprio un regista come Pontello e nessuno è stato capace di raccoglierne il testimone. È sempre una questione di uomini. Savinio amava dire che l’“Arcangelo del mediocre” volava basso. Oggi striscia al suolo. Troppo spesso manca competenza e preparazione. Il Nord Est aveva, e ha ancora, potenzialità, ma il cammino è più arduo».

Eppure esprime grandi player come la Delfin della famiglia Del Vecchio, i Benetton, i Doris. Perché non si è riusciti a fare squadra?

«Perché ciascuno ha seguito la sua traiettoria nell’assenza di una visione collettiva. Prendiamo ad esempio i Benetton: Luciano era il genio origine del tutto, che si esprimeva come un guru, un gigante come Adriano Olivetti, entrambi sensibili al bello applicato agli stabilimenti affidati ai migliori architetti, ben altro dai capannoni industriali che infestano il territorio. Se la famiglia si fosse concentrata sul prodotto come ha fatto Zara, oggi avremmo un colosso globale dell’abbigliamento. Ha prevalso la strada della Finanza&Mercati, ed è stata scelta la via della finanza, della diversificazione, pure scelte felici. Ma si è perso di vista il core business, cuore del progetto originario».

Dopo anni di immobilismo si è riacceso il risiko bancario coinvolgendo realtà fino ad oggi intoccabili come Mediobanca. Come deve essere interpretato tutto questo?

«È lo specchio di un sistema che sembra aver smarrito la bussola. La vicenda Mps ne è l’emblema. Parliamo di una banca salvata ripetutamente con i soldi pubblici che lancia un’offerta di scambio titoli con una banca che, superato il momento critico del settore nel 2008, ha ben altro spessore e reputazione, dotata di fondamentali eccellenti: Mediobanca. Con rapporti di scambio fuori mercato. Il sistema bancario italiano era tranquillo, macinava utili stellari, senza scossoni. Poi Andrea Orcel, Ad di UniCredit e re dell’M&A, ha aperto giochi inattesi che non si vedevano da decenni».

Cosa devono aspettarsi le imprese dall’amministrazione Trump?

«Abbiamo iniziato dicendo che in Italia non esistono più i poteri forti. La stessa cosa non si può dire per gli Stati Uniti dove un ristretto gruppo di persone è stato in grado di indirizzare perfino Biden. Figurarsi Trump che non si è reso conto che i dazi sono tasse. Il futuro non è più sulle ginocchia di Giove».

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