Christillin: "In Italia tanti ritardi e un potenziale enorme"

Serve un nuovo racconto dell’Italia nel mondo. Parole di Matteo Renzi, qualche giorno fa agli Stati generali del turismo, quando ha annunciato un miliardo di investimenti per la cultura. «La bellezza c’è ma bisogna raccontarla, solo così si vince la sfida del turismo» secondo il premier. Un racconto capace di generare numeri in crescita, a partire dal fatto che nel 2015 i viaggiatori stranieri hanno speso 35,7 miliardi (+4,5%). «Ma abbiamo un potenziale straordinariamente superiore» sottolinea Evelina Christillin, che di racconti e di turismo molto ha da dire per il suo passato di inventore di Torino città d’arte e per il suo presente da presidente di Enit. «Cominciamo con una consapevolezza: con la cultura si mangia, e pure bene. Il turismo genera il 10% del Pil e l’11,5% del totale occupati in Italia» dice con sintesi secca Christillin.
Ma quali sono le sfide per togliere i piombi alle caviglie e liberare la corsa dell’economia da turismo?
«Siamo il quinto paese per numero di arrivi internazionali, ma il primo nei desideri. E addirittura l’ottavo per la spesa. Coltiviamo l’obiettivo di un sano matching tra questi dati. Dobbiamo aumentare la spesa media dei turisti e specie degli stranieri, che passano in media da tre a quattro notti, ossia si fermano troppo poco e poi non tornano. Dobbiamo aumentare pernottamenti e arrivi dai paesi emergenti. Dobbiamo puntare sulla destagionalizzazione, poiché il nostro turismo è troppo concentrato sui mesi estivi. Dobbiamo proporre un allargamento delle sedi. Non solo spiagge, Firenze, Roma, Venezia ma anche la via Francigena, il percorso dei siti Unesco, le regge e i castelli, e via elencando un patrimonio senza pari al mondo. Dobbiamo saper mirare singoli target, siano essi relativi alla fascia di età del turista o attinenti ai suoi interessi quale l’enogastronomia. Dobbiamo puntare di più sul web, che muove l’80% del turismo mondiale e dove siamo per cultura e tecnologia molto indietro».
Nei nostri alberghi non di rado il wi-fi nemmeno funziona, le App sono una giungla, il portale del turismo incompleto, la gestione di big data e statistiche tardiva.
«Vero. Sono anche questi tasselli del Piano nazionale del turismo, documento di 120 pagine che vorrebbe riscrivere il nostro futuro, programmandolo e non lasciandoci vivere».
Ma ha mai il dubbio che Enit sia un carrozzone non riformabile e che la delega alle Regioni una selva in cui il turista è destinato a perdersi?
«Sarei una sciocca o una presuntuosa se mi nascondessi i problemi, ma sono persuasa che la mia missione non sia come voler raddrizzare le gambe ai cani. Sono una testona sabauda, voglio giocare la sfida fino in fondo. Non ho la presunzione di avere bacchetta magica, mi fido della nostra imprenditorialità e del nostro patrimonio, confido in un governo che ha deciso di puntare su questo filone».
Dipende anche dal mutamento dei flussi turistici mondiali legato alla chiusura di tante mete non più “sicure”.
«I dati del turismo in Italia sono molto positivi e stimati in ulteriore crescita perché si sta stringendo il cerchio delle destinazioni. Alla Bit di Milano ho incontrato la vice-ministro russa al turismo che mi diceva di avere 7 milioni di turisti in cerca di un mare fuori dal rischio instabilità. Siamo stati alle fiere di Berlino e di Mosca con le Regioni, e abbiamo colto una attenzione raddoppiata. Diventiamo scelte un po’ più obbligate. Ma dobbiamo investire. Scontiamo una arretratezza infrastrutturale e di servizi spaventosa. Il Sud della Spagna è molto meno interessante della Sicilia, ma rispetto alla nostra isola ha 12 volte di più in voli e ricettività. Gli aeroporti di Malaga e Palma hanno una potenza di fuoco impressionante. Da noi, tra Palermo e Catania crollano i piloni dell’autostrada. Servono investimenti. E però, per la nostra parte, con una cultura del marketing meno arcaica possiamo sviluppare un potenziale immenso. Abbiamo una gamma infinita di nicchie da esplorare, cui magari badiamo poco. Penso al turismo esperienziale. I cinesi ricchi sono enormemente attratti da Milano per lo shopping, perché vogliono vedere dove è l’originale. Tantissimi italo-americani vogliono vedere dove sono state girate le scene del commissario Montalbano. E nelle nostre cantine abbiamo infinite chance».
Parliamo di una esperienza concreta. Lei è tra quanti hanno saputo tirar fuori dalla cantina il profilo culturale di Torino e inventarla come città d’arte.
«Nulla di miracolistico. Il processo inizia a metà anni ’90 e sono state lungimiranti le giunte Castellani, Chiamparino, Fassino a puntare a una via aggiuntiva, rispetto all’economia tradizionalmente fondata su Fiat e banche e finanza. Castellani aveva pensato a un piano strategico, che teneva insieme Tav, metropolitana, nuove corsie autostradali, potenziamento dell’aeroporto. La candidatura alle Olimpiadi si innesta su un pensiero pre-esistente: il common goal nasce da questo mix, che si impasta anche con la ricerca di fondi europei, con la apertura di musei e palazzi chiusi da decenni, con l’estensione di una cultura dell’accoglienza praticata. La necessità di arrivare pronti al 10 febbraio 2006 ci ha costretti a far ricorso anche alla chiave a stella di Tino Faussone, mitico operaio montatore di Primo Levi. Non avevamo Uffizi o Canal Grande, ma abbiamo montato un sistema museale strepitoso. Abbiamo fatto scuola, abbiamo costruito una case history cui guardare oggi per la candidatura di Roma».
Cosa significa per Torino la scoperta della vena turistica?
«Data la migrazione della Fiat, se non avessimo avuto un obiettivo, ci saremmo lasciati andare a vaghe depressioni. Il 2015 è stato l’anno record per il turismo in Piemonte, che vale +12% sulle presenze e +9% per gli incassi. Il settore commerciale a Torino ha avuto un aumento dei ricavi del 30% nell’ultimo anno. Il museo Egizio che mi onoro di presiedere ha quasi raddoppiato gli ingressi e chiude il bilancio con 800 mila euro di utile. Le attività fieristiche e le esposizioni sono cresciute, grazie agli investimenti in infrastrutture fatti per le olimpiadi. Che non sono state un fuoco di paglia e non hanno generato alcun rebound psicologico, perché sono state uno strumento e sono state inserite in un processo».
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © il Nord Est








