Le camicie stirate di una sarta che aggiusta i silenzi

In una casa che profuma di mare, un padre rifiorisce piano. Tra piante, memorie e cuciture, il tempo torna a respirare

Chiara Gily
La terrazza piena di buganvillee pareva tuffarsi nel mare
La terrazza piena di buganvillee pareva tuffarsi nel mare

Da quando Augusto non camminava più, mal sopportava la luce. Le persiane della sua camera da letto erano perennemente abbassate e lui vi stazionava innocuo e infelice, come un vecchio gufo in letargo. Tutti i giorni erano identici agli altri, il passare del tempo era scandito dal ticchettio della sveglia sul comodino e dal “Con permesso, avvocato, si può?” di Titina, la domestica, che gli portava da mangiare tre volte al giorno, apparecchiando su quella che un tempo era la scrivania dove di notte, anche dopo dodici ore trascorse nel suo studio legale, nascevano i suoi pareri e perfezionava le sue arringhe.

Da tre mesi, però, qualcosa era cambiato. A casa Fabrizi le tapparelle erano tornate ad alzarsi ogni mattina, puntuali alle sette. E si spalancavano verso il mare di Posillipo, che d’estate profumava di sale, gelsomini e benzina dei motoscafi. “Sì è preso un bel colpo di gioventù” – mormorava il giardiniere che, per volere di sua figlia Margherita, curava le piante sul terrazzo di cui si era sempre occupata sua madre, fino a quando un ospite sgradito si presentò nel suo stomaco, consumandola e portandola via in neanche un anno.

***

Quella mattina d’agosto, il cielo era di un azzurro talmente acceso da sembrare irreale e le cicale riempivano l’aria di un canto ostinato. «Buongiorno Francesco, suo padre è di là» Titina aveva capito dal suono del citofono che non c’era spazio per i convenevoli e gli rivolse la parola subito dopo essersi sistemata la ciocca di capelli grigi sfuggita al mollettone.

Il primogenito di casa Fabrizi era partito da Milano di notte ed era arrivato a Napoli nella tarda mattinata, senza neanche fermarsi a bere un caffè in autogrill. Aveva fretta, anche perché, quella che era iniziata solo come una seccatura, era degenerata in qualcosa che doveva risolvere al più presto. Era stanco, per lui le vacanze erano state posticipate per raggiungere quel padre che pareva aver dimenticato il suo ruolo e la sua età.

Elisa, la sua compagna, e le sue figlie lo aspettavano a Santa Margherita Ligure e non vedeva l’ora di lasciarsi l’ “impiccio” – così lo definiva – alle spalle. «Grazie, mia sorella è già arrivata?» «Sì, c’è anche il signor Antonio.»

Una smorfia di fastidio sul volto di Francesco fece pentire subito la povera Titina di aver proferito quel nome in più. Avrebbe voluto ingoiare quella frase, cucirsela sulla lingua come un orlo storto. «Io vado a preparare il caffè» pronunciò a bassa voce la domestica e si allontanò verso la grande cucina accarezzandosi il grembiule pulito, quasi a lavarsi la coscienza.

Di tutto quel trambusto, si sentiva responsabile. Era stata lei, dopotutto, a portare Carmen in casa Fabrizi. “Questo non è mica malato, è solo depresso” pensava ogni giorno, vedendolo spegnersi sempre di più. E così, invece di fargli attendere la morte con le persiane chinate, gli aveva presentato la sua amica Carmen, detta “la sartina”, che si guadagnava da vivere cucendo e rammendando qualsiasi cosa le si chiedesse. “Hai l’oro nelle mani, altro che le mani d’oro, riesci a trasformare un pezzo di stoffa in pura magia” – le dicevano le signore bene di Marechiaro – e le portavano le foto delle attrici o presentatrici della televisione che vedevano sulle riviste di gossip sfogliate dal parrucchiere, a cui chiedevano di poter strappare le pagine.

A casa Fabrizi Carmen aveva iniziato con piccoli gesti: un bicchiere d’acqua con limone, menta e zucchero, le iniziali ricamate sulle camicie, gli aneddoti su quello che accadeva in quel quartiere sofisticato che l’avvocato non frequentava più. Carmen aggiustava abiti, ma soprattutto i silenzi e Augusto, burbero e taciturno, aveva cominciato a sorridere. Poi a parlare. Poi a camminare. E, infine, a profumarsi di vetiver.

«Margherita, eccomi» – Francesco si annunciò così a sua sorella nella sala da pranzo, lasciando a suo cognato un “Uè Anto’’”, senza troppo entusiasmo.

***

Lei gli corse incontro, abbracciandolo con eccezionale affetto, quello di chi finalmente può condividere una disgrazia. «Sarai stanchissimo, vuoi farti prima una sciacquata?».

«Mettiamo fine a ‘sta farsa Margherì» disse il fratello maggiore avviandosi verso quello che un tempo era lo studio del padre. «Francesco, papà non sta più là. Si è voluto trasferire al piano di sopra. Al piano terra non ci vuole stare, dice che non passa aria».

«Ma come fa con la sedia a rotelle a salire le scale?»

«Ah, ma non lo sai?». Finalmente Antonio proferì parola, rendendosi utile. «Cosa non so?»

«L’avvocato cammina di nuovo, e le scale non sono più un problema».

«Bè, certo, si fa aiutare» intervenne subito Margherita abbassando lo sguardo, come si fa al confessionale.

Francesco, invece, gli occhi li alzò al cielo, trattenendo qualche brutto improperio solo perchè davanti a lui campeggiava un quadro del Seicento con l’immagine sacra di San Gennaro. «Si fa aiutare da...quella?» incalzò lui.

«Sì, vuole solo lei. »

Francesco si rinchiuse nella seconda smorfia di dolore nel giro di dieci minuti. «Io gli devo parlare, ma vi sembra normale tutto questo? Ma, soprattutto, come è possibile che siamo arrivati a questo punto?»

Nelle sue parole c’era odore di rimprovero nei confronti di quella sorella che non si era accorta di nulla, fino a quando l’annuncio ufficiale non era arrivato. «Ma secondo te, potevo mai immaginare una cosa del genere, Ciccio?»

Odiava quando sua sorella lo apostrofava cosi, ma la terza smorfia se la risparmiò. «Andiamo su» esclamò Francesco.

Antonio fece per alzarsi e seguire il cognato e la moglie, la quale gli gettò l’occhiata tagliente del “Tu no. Aspettami qua”.

«Vi ho portato il caffè, per il signor Francesco col ghiaccio e il latte a parte, giusto?» Titina comparve giusto in tempo per togliere dall’imbarazzo il bistrattato Antonio che rimase seduto sul divanetto con le spalle curve e le mani appoggiate sulle ginocchia.

«Dopo, Titina, dopo… »

Margherita cercò di essere il più gentile possibile e i due fratelli salirono le scale fianco a fianco. Aprirono la porta della camera da letto del padre senza bussare. Augusto era in piedi, con un bicchiere in mano, accanto alla grande vetrata che lo separava da una terrazza piena di buganvillee che pareva tuffarsi nel mare, e li accolse con un sorriso aperto.

«Ciccio, niente di meno, dovevo annunciare il mio matrimonio per farti vedere a Napoli!» disse l’avvocato.

«Papà, abbi pazienza, è una follia. Capisco tutto, ma finiamola qua.»

Augusto bevve un sorso di limonata, poi lo guardò senza smettere di sorridere. «Ciccio, a’ papà, qui non si finisce proprio niente. Mi ero solo dimenticato come si ricomincia». —

 

L’autrice

Napoletana di nascita, triestina per scelta, Chiara Gily è giornalista pubblicista e racconta le sue avventure e il punto di vista da “espatriata” su Il Piccolo, nella sua rubrica del sabato mattina Una napoletana a Trieste. Ha un’abilitazione alla professione di dottore commercialista che tiene chiusa in un cassetto, ma le ha dato l’opportunità di scrivere, per più di dieci anni, di finanza al femminile sul mensile Cosmopolitan Italia, anche qui con una rubrica personale.

Nel 2023 scrive “l’Essenza dell’arancio amaro” per Einaudi ragazzi e a marzo 2025 pubblica “Aspettami al Caffè Napoli” (Mondadori) che, a una settimana dalla sua uscita, scala la classifica della narrativa italiana.

Riproduzione riservata © il Nord Est