Tra balle di rifiuti e promesse sbiadite qualcosa non torna
Nel rombo della grandine si mescolano passato, scoasse e senso di colpa. Un capannone di scarti custodisce più segreti di quanti Bruno voglia conoscer

Di solito lo chiudo il capannone, mentre scarico, che non si sa mai, ma oggi non si respira, tra la puzza e la calura. L'estate più calda del secolo, dicono. Ormai lo dicono ogni estate. Però da stamattina il ginocchio mi fa un male bestia, anche così, da seduto: segno che cambia il tempo.
Il capannone è quasi pieno e tra le scoasse e il camion mi resta poco spazio per manovrare il muletto, ogni due manovre una bestemmia, perché le balle di scarti tessili non sono facili da impilare. Meglio dei rifiuti ospedalieri della settimana scorsa, non dico di no. Però sono molli, 'ste canchere, non stanno belle dritte.
I due del camion, uno è nuovo, l'armeròn che mi aiuta a scaricare; il biondo è lo stesso delle altre volte. Si è piazzato sul portone, da dove può tener d'occhio sia il piazzale che me. Ha la faccia da film, mento quadro, occhi celesti, ma la testa troppo grossa per quel corpo mingherlino, una testa piena di pensieri brutti. Una volta gli ho visto una rivoltella. Di colpo si mette sul chivalà e io spengo il muletto: si sente un'auto avvicinarsi, adesso anche il grosso guarda fuori. Ma ho riconosciuto il motore.
“Tranquilli”, faccio, “è il signor Zan.”
Infatti arriva il BMW blu, si mette a fianco al mio pandino.
Smonto dal muletto – il ginocchio, bestemmia doppia – ed ecco il signor Zan, la pancia grande ma dura dentro la camicia bianca, il passo deciso, anche a settant'anni, cinque più di me: passo da paròn.
Parla al biondo ma con gli occhi cerca me: tutto a posto?
“Tutto a posto”, dico, mentre li raggiungo. “Un'oretta e finiamo.”
“Oro.”
Gli faccio segno verso l'interno, come dire: guardi lei stesso.
Lui guarda, e io con lui. Guardiamo il capannone stipato di rifiuti fin su alle finestre e lo rivedo com'era una volta, la Zan Allestimenti, col viavai di gente, le voci dei lavoratori e dei macchinari.
Anche il signor Zan vede la stessa cosa, perché fa: “Eh, cossa votu, Bruno. Bisogna adattarsi ai tempi. Chi non si adatta è finito”.
I tempi sono che per le ditte è tanta spesa smaltire le scoasse in modo regolare; se hai tanti metri cubi dove farle sparire a un prezzo più basso puoi tirar su dei bei schei.
“E la nipotina?”, fa il signor Zan, “Come sta?”
Mi viene un sorrisone: “Ah, la mia Sofì! Pensi che parla meglio il francese dell'italiano, fa impressione! Sono arrivati ieri l'altro.” Tiro fuori al volo il telefono e gli faccio vedere una foto che ha mandato mio figlio: la Sofì con in braccio una gallina. Mi fa morire quando ride così, che le guance fanno i buchini. “Adesso son tutti su dai consuoceri. Io vado domani sera, dopo che finiamo qua.”
Lui complimenta la foto, poi mi fa segno di seguirlo nell'ufficetto.
“Zoppichi forte, oggi, Bruno.”
“Perché viene a piovere.”
“Riguardati però.”
È così, il signor Zan: ci tiene a me. Nel 2006 mi son disfatto il ginocchio in bicicletta, che a quel punto a montare gli stand ero utile come il due di coppe quando la briscola è spade, ma lui non mi ha lasciato a casa; e quando il Covid ha dato la botta finale alla ditta, mi ha tenuto a fare il custode.
In due e due quattro viene scuro; fuori si è rannuvolato, e nell'ufficio coi vetri grigi di polvere ci si vede a malapena. Sulla vecchia scrivania c'è un raccoglitore con delle carte: se viene un controllo devo dare quelle. Ma non è mai venuto nessuno. Infilo la mano tra la scrivania e il muro, tiro fuori il quaderno giallo e lo do al signor Zan, che registra il carico. Ha le mani curate, adesso, ma sono mani che hanno fatto la loro parte di fatica, a spostar pannelli e tirar cavi con noialtri anche se era il padrone.
Mi ridà il quaderno. “Dopodomani dobbiamo partire col capannone di Pantiera.”
Resto senza parole.
“Lo so Bruno che dovevi andare su dai tuoi, ma bisogna che procediamo. Ti do un bell'extra, fai un regalone alla Sofì.”
Faccio di sì con la testa, però non è per quello che ci son rimasto così. Pensavo che dopo questo capannone, basta. Qua siamo spersi nei campi, ma quello di Pantiera è stato il primo capannone della ditta, è più vicino al paese. Lungo il Melemma. Proprio dietro le nuove scuole.
La voce mi scappa fuori. “Ma com'è possibile che non ha trovato da venderlo, invece? O da affittarlo?”
Il signor Zan mi guarda come se non mi vedesse bene.
“Chi gli serve un capannone”, dice, “se lo fa nuovo. Lo fa come gli serve e dove gli serve. Come il polo logistico vicino al casello: che alla fine il Comune ha dato il permesso. Coi schei che tiro fuori di qua” volta una mano a palmo in su; e poi, come in un gioco di prestigio, volta l'altra: “investo di là.”
Mi accorgo che ho ancora in mano il quaderno giallo. Lo metto via.
“Mi raccomando, Bruno, deve andare tutto liscio.” Col mento indica di là dal vetro. “Questa è gente che non bisogna fare incazzare.”
Lo accompagno fuori.
“Chi non si adatta è finito”, mi dice ancora, prima di salire in auto.“C'è una ragione se io sono il padrone e te il custode”. Non lo dice, questo. Almeno non con la voce.
La pioggia poi è arrivata, mentre scaricavo le ultime balle, e come succede sempre più spesso è venuto giù un finimondo d'acqua e adesso la grandine.
Il camion l'hanno portato fuori ma non sono partiti. Forse aspettano che passi il grosso del temporale.
Tiro il portone scorrevole come l'ho tirato per una vita; chiudo dall'interno, poi uscirò dalla porta piccola. Da solo nel buio respiro l'odore schifoso dei rifiuti. La grandine smitraglia il tetto, rimbomba qua e in tutti gli altri capannoni abbandonati che ci sono fuori da qua, nelle zone industriali mezze fallite, o sparpagliati per la campagna. Chissà quanti sono imbottiti di rifiuti. Tre li ho riempiti io. Penso alle porcherie che scivolano nella terra, nell'acqua. Alla scuola di Pantiera.
Al quaderno giallo ben nascosto dietro la scrivania.
Guardo ancora nel telefono la foto della Sofì. Gli occhi mi si appannano, li asciugo con una manata.
Quando esco la grandine ha lasciato il posto a una pioggia gentile ma il camion è ancora lì, con tutte le luci spianate. Il biondo è a un passo da me. Sento il cuore sgroppare di paura, di colpo sono stonfo di sudore e sotto la tuta il quaderno giallo mi si appiccica alla pancia.
“Com'è che ci hai messo tanto”, fa, con gli occhi a fessura.
Ci ho segnato anche la targa del camion, sul quaderno, già che c'ero. Trovo un avanzo di voce. “Sono cascato. Il ginocchio...”
Sbuffa. Ancora con 'sto ginocchio. Poi: “A domani.”
Anche mentre il camion se ne va, vedo il suo testone girato verso di me.
Chiudo il capannone per l'ultima volta, e mi avvio zoppicando sotto la carezza della pioggia.
L’autrice
Francesca Violi scrive romanzi noir; i suoi libri, “Sulla riva” e “L'abbaglio”, sono pubblicati dalla Elliot Edizioni. Collabora con La Tribuna di Treviso. Prima di dedicarsi alla scrittura si è laureata in architettura al Politecnico di Milano, e ha lavorato in diversi studi di architettura milanesi. È nata a Reggio Emilia nel 1973 e da anni vive a Silea, in provincia di Treviso. Con il romanzo “L’abbaglio” (Elliot edizioni) ha vinto il premio Giorgione - Noir nel 2023.

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