Agosto animale nella città senza redenzione
Una grafica esausta lotta col caldo, il vuoto e il suo gatto Rocco. Sopravvive tra app inutili, fantasmi notturni e sogni di refrigerio assurdi

Ad agosto, Mestre non è una città. È una punizione. Il caldo è ovunque, viscido come un pensiero che non riesci a scrollarti di dosso. Non c’è brezza, non c’è tregua, solo cemento che restituisce il calore e vetri che riflettono una luce senza perdono.
Vivo da sola e non so più se lavoro per vivere o sopravvivo per lavorare. Faccio la grafica per una società che progetta app inutili, tipo l’ultima, una piattaforma per prenotare lavaggi canini a domicilio. Una volta ho proposto un rebranding, “Chiamiamola Shampoodle.” Mi hanno ignorata. Mi hanno chiesto invece di progettare un’icona “solare e coinvolgente”. Ho disegnato un cane che si suicida in una vasca. Non l’hanno capita.
Sono certa che se Dante fosse nato oggi, il sesto girone sarebbe certamente una startup.
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Convivo con un gatto. Si chiama Rocco, un gatto nero, enorme, con l’aria di chi ha ucciso nei secoli e ora si sta prendendo una pausa. Non miagola quasi mai, comunica con sguardi e silenzi pieni di giudizio e forse, è l’unico che in casa non sembra soffrire.
Rocco è grosso, scontroso, e si muove solo per mangiare. Il resto del tempo lo passa a fissare il muro o il vuoto, come se vedesse qualcosa che a me è precluso. Una via d’uscita, forse. O la fine.
Una volta gli ho chiesto ad alta voce: “Tu sai qualcosa che io non so?”. Mi ha sbadigliato in faccia e si è leccato il culo. Onesto.
Il ventilatore si è rotto tre giorni fa. Non l’ho aggiustato. Non per mancanza di soldi, almeno non solo. È che non ci trovo più il senso. Aggiustare qualcosa significa sperarci ancora, e io sono in pausa da ogni forma di speranza. C’è una strana, torbida coerenza nel lasciar marcire tutto, anche me stessa.
Mestre, in agosto, sembra disabitata, ma non lo è. Sotto la superficie, qualcosa pulsa. I vicini urlano sottovoce, i gatti randagi si muovono a zig-zag come ombre, le zanzare ti trovano anche se ti nascondi, anche se ti dimentichi di esserci.
Rocco, invece, non dimentica niente. Mi guarda mentre sudo davanti al computer, in reggiseno e mutande, con le tapparelle abbassate e l’aria ferma come il tempo. Non miagola, non pretende, si limita ad osservare, con l’occhio clinico di uno psichiatra che ha già formulato una diagnosi.
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Ogni tanto, sogno di strangolarlo. Lui, o me stessa. Poi ci penso e capisco che siamo entrambi troppo pigri per morire davvero.
Il lavoro continua a battere colpi, mail automatiche, briefing con clienti che vendono sogni finti. “Pensiamo a un’estetica solare!”, mi scrivono.
Io intanto ho il frigorifero vuoto e un principio di insonnia che gratta il cervello dall’interno.
Mi sveglio ogni notte tra le due e le quattro. Cammino scalza in salotto come un fantasma. Stanotte ho sognato che il caldo entrava dalla finestra sotto forma di serpente trasparente e mi strisciava addosso. Mi sono svegliata con la fronte zuppa e una voglia assurda di vendere l’anima in cambio di un getto d’aria fresca.
Rocco mi segue, col suo passo felpato. Lo trovo accanto al mio letto ogni mattina, come se volesse controllare che io ci sia ancora, o più probabilmente, che non ci sia più e finalmente possa occupare tutto il materasso.
Il caldo ha un odore. Di umido, di pelle, di pensieri vecchi e rabbia che non hai nemmeno voglia di sfogare. Ho iniziato anche a parlare da sola. Frasi brevi. A volte bestemmie, altre volte solo nomi.
Quello di mia madre. Quello di un ex. Quello di Dio, in varie declinazioni e toni. Nessuno risponde.
La fede mi ha lasciata anni fa, ma continuo a litigare con lei.
Vado avanti a birra calda, cracker e senso di colpa. Dicono che i gatti assorbono le energie negative. Il mio ormai dovrebbe essere radioattivo.
Elena, la mia amica ottimista, mi ha scritto: “Dai, tra poco arriva settembre!”
Settembre. Settembre è una bugia. Un concept. Un miraggio nel deserto.
Come l’amore. Come l’aria condizionata. Come l’idea che qualcosa, qualsiasi cosa, possa migliorare da solo, senza sacrificare una parte di te nel processo.
Ieri Rocco ha vomitato sul divano. Non mi sono arrabbiata. Ho pulito in silenzio, poi mi sono seduta accanto a lui. Lui mi ha guardata. Forse voleva dirmi: “Non c’è niente da fare, mia cara. Il caldo ci sta decomponendo lentamente.” O forse solo: “Ti stai sedendo sulla mia zona preferita, stronza.”
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La call serale con il capo è surreale.
“Pensiamo a un concept ispirazionale che connetta le emozioni dei clienti.”
Ho spento la webcam.
Ho detto: “Scusate, problemi di connessione.” E mi sono stesa per terra, senza mutande, senza dignità. Con Rocco accanto.
Il silenzio si è fatto spesso, quasi comodo.
Alle sette di sera apro il frigo. Dentro: una lattina di tonno, mezzo limone ammuffito e una bottiglia di plastica piena di acqua del rubinetto. Ne bevo metà direttamente dalla bottiglia. Il resto lo verso nella ciotola di Rocco, che, come previsto, si fionda a bere. Apro il tonno e lo verso nell’altra ciotola. Lui mangia. Io lo guardo.
Poi mi siedo per terra e lo guardo ancora mentre si abbuffa come se fosse la sua ultima cena.
«Abbiamo sbagliato qualcosa, vero?» gli chiedo.
Lui si lecca l’ano con disinvoltura. Messaggio ricevuto.
Si accovaccia e chiude gli occhi. Io no. Però dopo cinque minuti lo imito. Si accoccola sulla mia gamba, con la gravità di un meteorite. Un piccolo atto d’affetto, o solo termoregolazione passiva.
Chiudo gli occhi. Sento la pioggia. Apro gli occhi.
Non piove, è solo il rubinetto della cucina che perde. Però per un momento, giuro, mi sembrava acqua vera, acqua fresca, dal cielo.
Rido, da sola. Rocco si spaventa, e corre via. E io, finalmente, mi alzo.
Prendo un foglio, disegno una nuvola, poi un fulmine. Scrivo sotto: “Design sperimentale. Concept metereologico emozionale.”
Lo mando ai clienti. Dopo dieci minuti, mi rispondono entusiasti. Forse sono solo pazzi, o forse, finalmente, sono alla loro altezza.
Ritorno sul pavimento. Stavolta, mentre Rocco mi si accoccola vicino e mi appoggia la zampa sulla caviglia, penso: "Forse domani compro un ventilatore nuovo."
Oppure ci mettiamo entrambi nel freezer.
Deciderò dopo il caffè.
Chi è Diana Chiarin
Diana Chiarin, nata a Mestre nel 1969, è una scrittrice italiana dallo stile diretto e sensibile. Dopo anni di lavoro nel settore ittico, si forma attraverso laboratori di scrittura creativa, sviluppando una voce narrativa intensa e autentica. Esordisce nel 2024 con Le sirene della notte, pubblicato da Mondadori, un romanzo ambientato tra Mestre e Marghera. Le sue opere intrecciano introspezione e realtà sociale, dando vita a personaggi complessi e tematiche profonde legate all’identità, alla memoria e alla marginalità. Legge molta poesia, che ritiene una forma di resistenza alla vita, ma è una lettrice onnivora, con una predilezione per i racconti.

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