I versi dell’oblio sfiorano le pietre del mio cuore antico
Vedova e sopravvissuta, Mary Shelley cerca rifugio tra le memorie. I Colli Euganei custodiscono l’eco del suo amore perduto

Anche oggi resto a guardare i bastioni della rocca. Dopo oltre vent’anni, sono tornata in questi luoghi e, malgrado il dolore dei ricordi, i Colli Euganei rappresentano la mia cura, il rifugio nel quale nascondermi in compagnia dei miei spettri.
Il sole è così giallo e intenso da imbiondire i prati e far scintillare le chiome degli alberi. Qui, le giogaie pietrose paiono condurre a un cielo talmente azzurro da stordire chi lo guarda.
Attraverso la strada carrareccia che passa giusto di fronte alla villa e mi avvicino alla pietra vecchia di secoli. Apro la mano e la tocco. E mi pare che il passato mi parli, inondandomi, mormorando al mio orecchio di battaglie combattute e soldati uccisi, di spade spezzate e vessilli insanguinati.
Mi sembra di vederli: una cornucopia di armi, elmi, corazze, un mare urlante di ferro e cuoio. Mi ritraggo, quasi la superficie irregolare del muro avesse preso fuoco. Alzo lo sguardo. Vorrei interrogare i grandi cipressi che mi osservano dall’alto. Le loro chiome simili a fiamme verdi. Sento la testa che mi gira.
È questo stordimento che vado cercando ed è una simile vertigine che mi salva dalla memoria. Malgrado io sia legata a questa terra dalla morte, vi trovo una pace che nessun altro luogo riesce a darmi. Forse perché i Colli Euganei sono allagati dal fiume di parole dei grandi poeti, coloro che hanno cantato la passione come nessun altro: Francesco Petrarca, Ugo Foscolo e Percy Shelley, il mio unico, grande amore. E le loro voci rimangono impigliate nelle pietre delle strade e delle colline, si rincorrono in giostre di versi che turbinano di fronte ai miei occhi increduli.
È uno strano andirivieni quello al quale affido le mie emozioni: i colli mi legano all’incanto della natura e mi distraggono, allo stesso tempo mi riportano ai giorni dolorosi che ricordo con amarezza. Ma, da sempre, c’è qualcosa in me che, nel cercare la quiete, brama al contempo la tragedia. Non ne conosco la ragione ma è sempre stato così e ormai sono troppo avanti negli anni per ribellarmi. In questa sorta di altalena dell’animo, mi perdo e mi ritrovo.
Decido di rientrare.
Lo specchio mi restituisce l’immagine di ciò che sono: una madre dal cuore spezzato, una donna che è sopravvissuta e non avrebbe voluto. Non sono nemmeno riuscita a morire, però. Forse, aver affidato la mia vita a mostri e orrori è stata la mia maniera per esistere in un mondo che non c’è e, al contempo, muovermi in questo con l’impalpabile invisibilità di una larva.
Non mi importa se i capelli non sono in ordine. Mi limito a raccoglierli in un fiocco, azzurro come le ceramiche di Delft. Cambio l’abito. Ne scelgo uno di velluto, nero come l’ala di un corvo. Al collo, ho solo un filo di perle. La loro luce d’opale strega il mio sguardo quanto basta.
Quando mi pare di essere pronta, indosso una mantella e scendo la scala che gira, gira, gira, simile a una grande elica.
Pochi istanti più tardi sono in carrozza. Le ruote cigolano mentre il veicolo scende l’erta del colle. Alla luce del sole che filtra dai finestrini, le mie dita sfiorano le pagine ingiallite di un libro.
Le parole dalla carta paiono migrare a quelle tue belle labbra, amore mio, la tua voce calda mi risuona nelle orecchie come una soave melodia, gli occhi tuoi lucenti mi sorridono, intrisi di una malinconica dolcezza.
Quando leggevi i versi delle tue poesie, la mano si levava sottile e agile e pareva fendere l’aria, sottolineando i passaggi, restando sospesa nelle pause, quasi a fluttuare, per poi riprendere quando il ritmo tornava a farsi impetuoso.
Odo il tuo canto, quei versi eroici volti a celebrare la grazia di questi luoghi la cui visione si rinnova in queste ore: le messi dorate e le vigne rigogliose e lucenti di guazza.
Tornano alle orecchie le uve purpuree della vendemmia e le isole verdi in fiore, parole tue, parole come monete d’oro che tintinnano nei precordi del mio cuore.
Il viaggio continua e io richiudo il libro. Mi lascio cullare dal dondolio della carrozza. Assaporo il silenzio. Lo faccio spesso. È così diverso ora che tu non ci sei più. Se penso a quando vent’anni fa parlavamo con passione di Milton e Keats, di quando mi consegnavi un nuovo libro da leggere o mi conducevi fuori, a Este, a comprare i barattoli di marmellata al mercato e mi guardavi, quasi spiandomi, dicendomi che i miei occhi castani e scintillanti erano preziosi e così lo era la mia voce d’uccello, dicevi proprio così. Ricordo la tua passione per l’allodola, tanto amata da Shakespeare perché con il suo canto ella annuncia il mattino.
La carrozza procede lenta lungo le giogaie, so dove deve condurmi e dentro di me cullo l’attesa di quanto sta per accadere. Il viaggio è breve. Dopo poco, il veicolo si arresta.
Il cocchiere viene ad aprirmi lo sportello e mi aiuta a scendere dal predellino.
Arquà si presenta ai miei occhi con la magnificenza policroma di un fondale teatrale: fra le chiome degli ulivi emergono le belle case in pietra, il campanile della chiesa di Santa Maria Assunta svetta sui tetti rossi, le tegole vermiglie che contrastano con il verde cupo dei cipressi.
Francesco Petrarca è morto fra i suoi manoscritti, nella bella casa qui vicino, alla mezzanotte del 18 luglio 1374. Nei Colli Euganei aveva trovato la sua pace, dopo la morte dell’amata Laura e sfuggito alla peste scoppiata ad Avignone e Milano.
Mi incammino verso la bella pieve, godendo dei tepidi raggi di sole al tramonto. Supero le prime case dell’abitato e infine, sul sagrato antistante la chiesa, ecco mi appare il grande sarcofago in marmo rosso. Lì riposano le spoglie del poeta e mentre il monumento funebre si manifesta ai miei occhi, ricordo il profondo e vasto mare dell’infelicità di cui scrivevi, Percy, e questi colli magnifici che consideravi isole in fiore di un perpetuo naufragio dell’anima.
E ora, mentre mi avvicino fin quasi a toccare il marmo, ecco vedo alzarsi le cornacchie in uno stormo nero: dilagano come inchiostro nel cielo bruno, di rame fuso. Levano il loro canto di ruggine al sole del tramonto di porpora.
In questa visione di malinconico abbandono, mi pare quasi che la tua poesia e quella di Petrarca siano una cosa sola e io rimango ad ascoltare la voce che tanto tempo prima mi aveva salvato e condannato.
E questa, in un certo qual modo, è la mia salvezza. L’unica possibile.
Nel sole morente di Arquà e di questa estate euganea, io trovo la ragione per continuare a vivere.
L’autore

Matteo Strukul è padovano e ha 51 anni. Conosciuto e amato in tutto il mondo, i suoi libri di ispirazione storica sono stati tradotti in decine di lingue. Nel 2017 con “I Medici” ha vinto il Bancarella e, da allora, ogni sua nuova uscita è best seller e domina le classifiche. Lo spirito dark, l’accurata profilazione dei personaggi e la puntigliosa documentazione sono le caratteristiche dei suoi lavori; la serie più recente ha come protagonista Canaletto. Dal suo romanzo “Casanova, la sonata dei cuori infranti” è stato tratto il musical Casanova Opera Pop rappresentato in Piazza San Marco. In febbraio è uscito “I sette corvi”, romanzo ambientato tra i monti bellunesi, tra horror e mistero.
Riproduzione riservata © il Nord Est