Quarant’anni di lotta e speranza con Springsteen
San Siro, due concerti a confronto per cantare contro l’oscurità. Restare umani con la musica del Boss: il suono giusto per tempi pericolosi


Se la notte appartiene agli amanti - Because the night belongs to lovers - le notti di musica estive a San Siro appartengono a Springsteen. Sono in molti a suonarvi, ma solo lui ci sta come a casa. “Only a San Siro” ha detto anche stavolta, nei concerti d’inizio luglio, di fronte all’accoglienza spettacolare e affettuosa di decine di migliaia di fan. Ancora una volta qui, da quando, il 21 giugno del 1985, ci esordì.
Chi lo ha seguito da allora, in decine e decine di concerti, nelle estati italiane, molte delle quali passando e ripassando da San Siro, difficilmente le può dimenticare, quelle occasioni in cui trionfano la musica e l’energia, l’armonia tra pubblico, band e leader e, dentro al suono potente, dentro alle melodie irresistibili, emergono le parole, i racconti che sono le canzoni di Springsteen, un’ispirata e profonda antologia americana e universale. Quest’anno, però, in questo inizio d’estate, nei concerti c’era qualcosa di nuovo, come vedremo.
Ma intanto torniamo a quel lontano 21 di giugno, solstizio e primo giorno d’estate, primo concerto italiano del Boss. Mio compleanno, anche. E quale regalo migliore, allora? Arrivava finalmente in Italia l’autore di New York City Serenade e Rosalita, degli lp, come si chiamavano allora, Darkness in the Edge of Town, Born to Run, il doppio The River, il cupo e duro, scabro Nebraska, mentre appena qualche mese prima era uscito Born in the Usa, successo planetario.
San Siro era stracolmo, il palco posizionato sotto la curva nord (oggi invece lo piazzano dirimpetto alla tribuna centrale), solo due anelli per il pubblico, il terzo di là da venire, come le polemiche che stanno oggi tempestando l’amministrazione e la città di Milano e che riguardano anche la sorte di questo tempio del calcio e della musica, la Scala del rock.
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Il Boss, quella sera, apre con Born in the Usa, che il presidente Ronald Reagan aveva appena tentato di strumentalizzare, non capendone il senso, che poi Springsteen si era premurato di spiegare in modo inequivocabile. Sarà uno dei suoi non frequenti interventi chiaramente politici. Per il resto, le sue prese di posizione, esattamente come le storie che racconta in musica, fanno in genere volentieri a meno della politica. Parlano spesso di resistenza, ma alle insidie, agli inganni e alle delusioni della vita.
Tante sono canzoni per chi lotta ma, in un certo senso, a prescindere dalla politica, aggirandola, oltrepassandola, volandovi sopra, passandovi sotto. Conflitti di classe, certo, ma mischiati con naturalezza ai brani che parlano d’amore e amicizia, di avventure di strada, di angosce, depressioni, furori, speranze, entusiasmi, luna park e ghetti sociali, highways infinite e selvagge badlands, nati per correre e brave persone difficili da trovare, nessuna resa e innamorati in fiamme, urla primordiali e messaggi struggenti rivolti a chi è lontano ma ben presente nel cuore e nella mente, sempre: I’m just calling one last time / Not change your mind, but just to say / I miss you baby, good luck, goodbay… Dopo più di tre ore, nella notte di solstizio ormai avanzata, in quella metà esatta degli anni Ottanta, chiude con le cover di Twist and Shout e di Rockin’ All Over the World.
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Fa lo stesso anche adesso, a luglio, quarant’anni dopo, ormai dentro il nuovo secolo, aggiungendovi Chimes of Freedom di Dylan, alla fine di tre ore filate e incandescenti. Ma, appunto, nuovo stavolta è quello che c’è in mezzo, tra l’apertura - con No Surrender la prima sera e Prove it All Night la seconda - e la chiusura: è una sorta di racconto politico declamato ai fan da un rocker che mai era stato prima così netto e radicale. O meglio, che lo era stato sempre in un altro modo, attraverso l’arte, e che stavolta invece si affida alle parole dette, esplicite come non mai.
Più volte, durante il concerto, Springsteen diventa un credibile, elegante (in cravatta e gilet, peraltro, mai visto così, con quest’afa poi) e intransigente oratore politico, senza preoccuparsi di dissimularlo. Sono tre o quattro brevi discorsi, anzi, delle invettive argomentate, contro la deriva trumpiana e, perché tutto sia più chiaro, ne fa scorrere sugli schermi giganteschi la traduzione italiana.
Parla dei “tempi pericolosi” in cui viviamo, che vedono “la mia terra, l’America che amo, quella di cui ho scritto, nelle mani di un governo corrotto, incompetente e infido” e di “un clown criminale” (di cui canta in House of Thousand Guitars): “Quando un Paese è pronto per un demagogo, puoi scommettere che si presenterà”. Si appella a tutti: “È nell’unione delle persone attorno a dei valori che sta la differenza fra democrazia e autoritarismo” e questa unione è oggi indispensabile, perché si sta “alterando la natura della democrazia” con le persecuzioni alla “libertà di parola e al dissenso”, ai “diritti civili”, alle “università definanziate perché non si piegano al nuovo potere”, con “i ricchi che abbandonano i bambini più poveri del mondo alla malattia e alla morte”, con le alleanze con “i dittatori” e le “deportazioni” degli immigrati. “Stasera vi chiediamo di sostenere la democrazia”, dice, “di alzarvi e far sentire la vostra voce contro l'autoritarismo e far risuonare la libertà. Dobbiamo organizzarci in ogni contesto: a casa, sul lavoro, pacificamente nelle strade. Alla fine della giornata tutto ciò che abbiamo è esserci l'uno per l'altro”. Ciò di cui denuncia la perdita sono le condizioni basiche della democrazia e del patto sociale novecentesco. Sembra l’incubo di Nebraska divenuto, da individuale, pervasivo, salito al potere.
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Sono parole con cui è in piena e spavalda sintonia il sound dell’intero concerto, duro e cadenzato, a volte martellante, secco, con Max Weinberg a picchiare sui tamburi come un ventenne, come Garry Tallent col basso, e la voce di Springsteen ruggente come in altri anni. “Sopravviveremo a questo momento”, dice poi, ma è la musica a dirlo in modo più convincente. Con la sua forza, certo, ma soprattutto con l’allegria, la gioia e l’energia vitale che comunica e trasmette avvolgendo e scatenando lo stadio, mostrando e facendo sentire ancora una volta, in questa vivida notte d’estate, in questo drammatico andare del secolo, “il potere giusto dell’arte, della musica e del rock and roll in tempi pericolosi”. L’unico potere divertente e felice. —
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