Pioveva quando uscì: la Bmw lo aspettava e la porta era aperta

Un intrigo di fratelli, soldi, vendette e storie che non tornano. Nessuno dice tutto, nessuno ascolta bene. Un ispettore vuole vederci chiaro

Pierluigi Porazzi

Quando esco dalla prigione slavina, e non ho neanche un ombrello. Non ho niente, solo le poche cose che avevo quando mi hanno messo in gabbia.

Primo

Mi hanno sempre chiamato Primo, come Primo Carnera, anche se mi chiamo Adelchi. Perché gli somiglio, a Primo Carnera, così dicevano. E poi ho fatto un po’ di boxe, prima di finire in galera. La boxe mi ha salvato una volta, poi mi sono messo io nei guai. Perché mi chiamano Primo, ma non sono mai stato primo in niente. Ho lasciato la scuola presto, avevo la testa troppo dura. E ho cercato delle scorciatoie per guadagnare, non mi è mai piaciuto lavorare. Non come Ruggero, mio fratello. Lui ha iniziato a lavorare nell’azienda di nostro padre, e quando lui è morto, gli ha lasciato tutto, e a me ha lasciato solo una casa di campagna. Ruggero ha venduto l’azienda, ci ha fatto un sacco di soldi. So che avrei potuto fargli causa. Ma poi mi hanno messo dentro. Ruggero non è neanche mai venuto a trovarmi. Si è sempre vergognato di me; per lui e mio padre ero la pecora nera della famiglia. C’è stata solo sua moglie, in prigione. Gilda. Bionda, alta, faccia dura come la terra da cui proviene, la Serbia. Nel suo paese faceva la farmacista, ha conosciuto Ruggero mentre era in vacanza a Lignano e ha deciso di sistemarsi. Io l’ho conosciuta al matrimonio. Lei mi ha detto che le sono piaciuto subito, e qualche mese dopo ha iniziato a vedermi di nascosto. Non avevo mai avuto una vera ragazza; ho frequentato solo donne che ti fanno compagnia per soldi.

Sto camminando sotto la pioggia quando una macchina si ferma. Una BMW. Al volante c’è lei, Gilda. Sorride. «Ti porto via da qui.» Salgo in macchina e lei si ferma in un motel. Mi bacia come se aspettasse quel momento da anni. Io non faccio domande.

I giorni passano. Ci vediamo ogni volta che può. Io so solo che il mio sangue si risveglia ogni volta che la tocco.

Poi una sera la vedo con un livido sullo zigomo. E un altro sul braccio. «Ruggero» sussurra. «Mi controlla, mi insulta. Mi picchia.»

Una tenda rossa mi scende davanti agli occhi. Sento un furore dentro che mi pare di tornare sul ring. «Lo sistemo io. Una volta per tutte.»

Gilda

«Lo sistemo io. Una volta per tutte.» Quando Primo dice così faccio fatica a reprimere un sorriso. Sono arrivata dove volevo. Non ho mai dubitato che ci sarei riuscita. So di avere un corpo che fa impazzire gli uomini, un’arma che dovrebbe essere registrata come mortale.

Scuoto la testa, con un fazzoletto mi asciugo lacrime finte. «Ci sarebbe un modo» inizio. E guardando i suoi occhi capisco che lo farà, ucciderà suo fratello per me. E io diventerò una ricca vedova. Primo spera che dopo noi due staremo insieme, ma non è questo il piano. Sarò libera, finalmente. Gli spiego cosa dovrà fare con parole semplici, in modo che possa capire. Credo che Primo non abbia neanche finito le medie. La settimana prossima andrò a un congresso di farmacisti a Lignano. Dovrà essere quella sera. Io farò in modo che molti dei partecipanti – soprattutto uomini – si ricordino di me, che possano testimoniare che ero a chilometri di distanza mentre mio marito veniva ucciso. Primo sarà la mia arma. Gli darò una pistola che ho comprato a Belgrado alcuni mesi fa, matricola abrasa, irrintracciabile. «Non dovremo vederci per un po’» gli dico. «Per evitare che sospettino di noi.» Invece sono stanca di andare a letto con uomini che non amo.

Quel giorno a Lignano, durante il congresso, ho sorriso molto. Parole vuote, strette di mano, slide su farmaci innovativi. Mentre ascoltavo il relatore che illustrava l’efficacia di un nuovo betabloccante, mio marito stava morendo.

Nessun messaggio a Primo, nessuna telefonata. Lui sapeva già quello che doveva fare.

La mattina dopo, due agenti si presentano nella hall.

Mi tremano le mani, ma tengo la voce ferma. «Com'è successo?»

I due dicono che gli hanno sparato. Pensano a una rapina. Tutto secondo il piano. Primo non ha fatto cazzate. Dovrò andare in questura per chiarire alcune cose con l’ispettore che si occupa del caso. Si chiama Cavalieri.

Annuisco. Lo sguardo basso, le mani intrecciate. Sono libera. Finalmente.

Cavalieri

Certe donne ti guardano come se sapessero già tutto. Gilda è una di quelle. Elegante, composta, perfetta.

«Abbiamo bisogno di chiarire alcuni dettagli» le dico.

Lei annuisce, gentile. «Certo, capisco.»

«Suo marito è stato ucciso sabato notte. Lei era a Lignano, giusto?»

«Esatto. Al congresso.»

Appoggio il fascicolo sul tavolo. «Eppure il Telepass della sua BMW ha registrato un’uscita dal casello di Latisana e un’entrata al casello di Udine Sud. Poi, di nuovo, un’entrata a Udine Sud e un’uscita a Latisana.»

I lineamenti di Gilda sembrano liquefarsi come la cera di una candela che si sta consumando. Quello che vedo sul suo viso è stupore vero. «Dev’esserci un errore.»

«Sul volante,» continuo, «abbiamo trovato tracce di polvere da sparo. E una pistola — la stessa usata per uccidere suo marito – è stata recuperata in un cassonetto vicino al suo albergo.»

Il silenzio si fa spesso. Gilda deglutisce. «Non so come sia possibile, ma io sono stata tutta la notte in albergo, lo giuro…» Cerca di recuperare un’aria seducente. «Io… credo di sapere cosa sia successo. È stato il fratello di Ruggero. Mi perseguitava. Era ossessionato da me.»

«Curioso,» ribatto. «Perché quella notte Primo era al pronto soccorso. Colica renale. Ci sono medici, infermieri, referti.»

Lei cerca qualcosa da dire. Le mani sul tavolo tremano appena.

Mi alzo. «Le consiglio un buon avvocato.»

Primo

Il pronto soccorso di Udine è sempre intasato, come dappertutto. Se non hai un infarto in atto, sei sicuro di aspettare almeno tre ore, prima che qualcuno ti visiti. La gente ci muore, intanto. A me invece ha salvato la vita. Anzi, mi ha cambiato la vita. Mi sono registrato dicendo che avevo dolori al ventre, e che soffrivo di coliche renali. Ho parlato con un paio di persone, in modo che si ricordassero di me, e sono uscito senza farmi notare. Tre ore. Il tempo di sparare a Ruggero, andare a Lignano, prendere la BMW di Gilda – sapevo dove teneva la chiave di riserva – tornare a casa di mio fratello, guidando con i guanti con cui avevo sparato, spaccare il vetro della porta finestra dall’esterno con un sasso, in modo che la polizia potesse notare che i vetri non erano stati calpestati, far scattare l’allarme, tornare a Lignano, lasciare la BMW di Gilda, riprendere la mia macchina e andare di nuovo al pronto soccorso. Ho dovuto aspettare altre due ore prima che un medico mi visitasse. Mi hanno fatto una flebo di antidolorifico e mi hanno lasciato su un lettino.

Adesso erediterò i soldi di Ruggero.

Però mi manca, Gilda.

Quella notte, un po’ sono morto anch’io.

L’autore: Pierluigi Porazzi

Nato a Cameri, 59 anni, Pierluigi Porazzi vive a Tarcento. È avvocato e giornalista pubblicista. Ha pubblicato per Marsilio Editore i romanzi “L’ombra del falco” (2010), “Nemmeno il tempo di sognare” (2013), in seguito usciti anche, rispettivamente, nelle collane “Noir Italia” (Il Sole 24 Ore) e “Il Giallo Italiano” (Il Corriere della Sera) e “Azrael” (2015), premiato come miglior romanzo dell’anno nell’ambito dei Corpi Freddi Awards.

Ha pubblicato numerosi romanzi; nel 2024, per per Mursia, “Il re delle fate d’autunno”, scritto insieme a Claudio Chiaverotti (autore Bonelli, sceneggiatore di Dylan Dog e creatore di Brendon e Morgan Lost).

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