Il giorno libero della signora Dina e i guastatori
Lei, sempre al servizio degli altri, si concede una fuga dolce come un krapfen. In un giorno qualunque, il desiderio vince su doveri, calze rotte e telefoni

Le porte scorrevoli del supermercato si aprono a mo’ di sipario. La signora Dina mormora un grazie di creanza. Ci fosse stata sua figlia Pamela, l'avrebbe rimproverata: deferente anche verso le porte automatiche, mamma?
Preme contro il fianco la borsetta rigida, in finta pelle, ed entra a passi brevi, le pieghe della gonna bleu si schiudono appena per accompagnare il movimento. Le calze nuove tinta carne hanno già perso uno dei 15 denari: poco sotto l'orlo della gonna, un buco grande come una moneta da un centesimo le decora un polpaccio. Per fortuna la Dina non se n’è accorta. Ci tiene a essere in ordine.
È il suo giorno libero. E quindi può fare i mestieri e la spesa per sé e suo marito Fausto, anziché per i Girardi. Poveri Girardi, tanti soldi e altrettanti dispiaceri, col figlio più grande dentro e fuori dalla clinica e la seconda, magra come una lisca, che sta in America e non torna neanche per Natale. Chissà se ha ancora la fissazione di cavar via i loghi dai vestiti firmati. Toccava alla Dina poi riparare il buco ma, per quanto ben fatto, il rammendo era visibile. Un piccolo coagulo di filo e tessuto che secondo la proprietaria conferiva al capo la sua vera unicità.
Un giorno la Dina aveva raccolto un coccodrillino verde dal cestino dei rifiuti sotto la scrivania e lo aveva portato a casa per cucirlo sulla polo di sua figlia. Aveva fatto un lavoro di fino, dopo il capo sembrava in tutto e per tutto un originale, e la Pamela, di solito una vergognosa, era rimasta contenta.
Adesso la Dina è lì che si piega per sfilare un carrellino dalla pila vicino alle casse. La blusa sintetica emette un piccolo crepitio elettrico. In quella, anche il telefonino decide di far sentire la propria presenza. La Dina rovista nel ventre della borsa, tira fuori il Nokia e la melodia di Per Elisa si libera nell’aria. Si affretta a rispondere.
“Pamela, ciao.”
“Mamma, non sei dai Girardi oggi, vero? Puoi andare tu a prendermi Nico?”
“Va bene, amore, volentieri.”
Una battuta sbrigativa in risposta e la conversazione è chiusa.
La Dina guarda l'ora e pensa che dovrà rinunciare all’appuntamento dalla callista per riuscire ad arrivare in tempo all’asilo. Pazienza.
Inizia la spesa muovendosi con passo più rapido di quello con cui è entrata. Mette nella cesta un cespo di lattuga, dei cuori di bue, un taglio di latteria, lo stracchino light per Fausto che è su di colesterolo. Deve stargli dietro come a un nini, se non vuole che le senta dal dottore.
Forse era meglio prendere il carrello grande, ma la Dina non ha simpatia per quello col gettone. Almeno quando deve fare la spesa solo per due, lo evita. Cosa vuoi, ognuno ha le sue manie.
È davanti all'espositore del pane quando parte di nuovo Per Elisa. Stavolta è la signora Girardi.
“Dina, perdonami, so che è il tuo giorno di riposo, ma è tornata la piccola, a sorpresa. Ci farà uscire matti prima o poi. Però a occhio ha messo su un paio di chili, forse meno dai, ma siamo contenti. A ogni modo, ci terrebbe a vederti. Per la tesi di dottorato deve intervistare non ho capito bene chi, donne che si occupano di famiglie di altri o roba così. Ti spiegherà meglio. Riesci a passare in qualche momento oggi?”
La Dina dice “Sì, grazie, arrivo,” e subito si pente. Di nuovo in testa la voce della Pamela: mamma, non devi ringraziare se il favore lo fai tu.
Guarda l’ora e si chiede se le toccherà rimandare anche il giro in cimitero. Le calle sulla tomba dell’Augusta dovrebbero aver tenuto. Quanto ha tribolato la sua amica prima di morire solo lei lo sa. Neanche il Signore, perché quello non si è fatto vedere mai. Lei invece passava a trovarla quasi tutti i giorni per dare una rincurata alla casa e prepararle un boccone. Il più delle volte metteva su una tecia di spezzatino che era l’unica cosa che le faceva allegria, alla Gustuta, anche se verso la fine riusciva a buttar giù sì e no due forchettate. Ogni tanto guardavano la televisione insieme, si animavano con Forum o si appisolavano con Linea Verde.
“Ela la Dina ‘sta qua?”
Molla il sacchetto con i montasù e si volta di scatto.
“Bice, ciao!”
“Ocio, che te ga una calza rotta.”
“Dove?”
“Lì da drio.”
La Dina si esamina rapidamente i polpacci ed emette un “Oh” mortificato.
“Come che te sta?” cambia discorso l’altra. Poi senza attendere la risposta passa a domandarle del nuovo lavoro della Pamela.
“È contenta, grazie.”
“Benòn… ‘Scolta, go raccolto do sportone de grisol stamattina. Vedessi che bel. Se te vien a darme una man a curarlo, te ne dago un sachetut.”
La Dina schiude le labbra sottili, su cui piccole rughe verticali si sono mangiate quasi tutto il rossetto ciclamino, ed è lì lì per rispondere quando qualcosa le arpiona lo sguardo. Le parole si ritraggono, e mentre la Bice va avanti a cicalare, gli occhi la tirano verso la vetrina dei prodotti da forno. La mano destra aderisce al vetro, incurante delle ditate che rimarranno sulla superficie e del fatto che qualcuno dovrà pulire.
Comandano gli occhi e comandano le mani.
“Cos’ha dentro?”
“Questo?” fa il commesso.
Sì della testa.
“Cioccolato.”
“Lo prendo.” Comanda anche la bocca, adesso.
Poco dopo la Dina stringe a sé un sacchetto di carta marroncino.
“Posso pagarlo qui?”
“Se non ha altra roba sì, altrimenti deve andare alle casse all’ingresso.”
“Ho solo questo,” si sente rispondere.
Recupera uno spicciolo dal portamonete e lo consegna all’uomo prima di allontanarsi.
“Dina,” le grida dietro la Bice, “il carèl!”
Ma lei tira dritto. Percorre la corsia a ritroso, valica le casse e raggiunge l’uscita. Le porte scorrevoli si separano come le acque con Mosè.
Qualche metro, ed ecco la Fiat Tipo. La Dina prende posto sul sedile, tira fuori il telefonino dalla borsa, lo spegne.
Per un po' resta a osservare attraverso il vetro il viavai delle altre persone. Poi, lentamente, infila una mano nel sacchetto di carta. Quando la ritrae, affiora un grosso krapfen.
Non ne aveva mai visti di queste dimensioni, neanche in Bassitalia dov’era stata in vacanza da ragazza, quaranta e passa anni addietro, e le paste erano il doppio che qua.
È ancora tiepido, dorato, imbiancato sulla cima da una nevicata di zucchero a velo.
Se lo spinge in bocca e affonda i denti nel soffice. Lo zucchero le incipria il labbro superiore e la punta del naso. L’olio di frittura le unge le dita. Al secondo morso il cioccolato straripa e un gocciolone di farcitura cola sulla gonna in fresco lana. Non se ne dà pena: la laverà. Anzi, la butterà. È vecchia come il cucco, non la può più vedere.
Il krapfen è divino, gigante, e la Signora Dina se lo mangia tutto. —
***
L’autrice
“Come si esprime un desiderio” (Bompiani) è il libro più recente (recentissimo) di Odette Copat, nata a Pordenone, dove vive. Laureata in Scienze Politiche, da più di vent’anni progetta contenuti innovativi per una onlus che si occupa di autismo.
Con la scrittura restaura scarti e piccole cose.Il suo blog “30giorninprova” ha superato il primo mese e poi tanti altri, permettendole di farsi conoscere ai primi lettori. Collabora con il Messaggero Veneto, dove tiene la rubrica domenicale “Settimo senso”, già “PNeologismi”, e con il Festival di Letteratura Verde. È tra le ideatrici del progetto “Letteralmente in vetrina” e una delle tre guide di “Pnleggebooklovers”.
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