L’estate di Luisa M. che accese ombre dietro le imposte

Un incontro cambia per sempre un ragazzo, una stagione, una casa. Un amore sospeso tra luce e mistero. E una presenza torna da molto lontano

Giuliano Pasini
Luisa aveva i capelli rossi, come il tramonto che ti sforzi di fissare strizzando le palpebre
Luisa aveva i capelli rossi, come il tramonto che ti sforzi di fissare strizzando le palpebre

Ci sono estati che non finiscono mai, perché non riusciamo a dimenticarle.

Avevo quindici anni l’agosto in cui conobbi Luisa. Ero in paese, da mia nonna, mentre i miei lavoravano ancora. Avevano un ristorante in città, andava a gonfie vele.

Quell’estate, il caldo era di quelli che spaccano l’asfalto e ti fanno sentire la testa leggera, come se stessi per svenire, o per volare via. Una di quelle estati di cicale, di odore di basilico e salvia sui davanzali, di luce.

Soprattutto di luce. Una luce esagerata, che si mangia i colori come in vecchie fotografie sovraesposte.

Vidi Luisa per la prima volta in un giorno come tutti gli altri, al ritorno di uno dei miei infiniti giri in bicicletta. Ero sudato, accaldato, pieno dei pensieri esaltati e sconnessi degli adolescenti.

Prima di arrivare dalla nonna, dovevo passare davanti a una casa con le imposte azzurre e il vialetto in ghiaia. Era vuota da quando me la ricordavo, e a me, se volete saperlo, metteva una strizza tremenda. Quindi acceleravo, raccontandomi che era per fare la volata prima del traguardo.

Fu lì che vidi. Seduta sul muretto di quella casa. Indossava un abito leggero bianco. Era scalza. Mi fece un cenno di saluto con la mano, facendo ondeggiare le dita, proprio come stesse aspettando me.

Inchiodai, scodando e rischiando di cadere. Aveva i capelli rossi, ma non come quelli che si vedono di solito. Erano rossi come il tramonto che ti sforzi di fissare anche se ti costringe a strizzare le palpebre. E gli occhi, verdi, grandi, così mobili, ti facevano sentire sempre osservato.

Mi sedetti accanto a lei. Un comportamento bizzarro per un ragazzino timido come me, ma mi sembrò la cosa giusta da fare. Forse perché non avevo scelta, ma allora non lo sapevo.

Nella mia adolescenza solitaria e irruenta, la trovavo bella. Se fossi stato capace di articolare un pensiero scevro dalle tempeste ormonali, avrei detto che mi affascinava. C’era qualcosa, in quella ragazza, che stonava ma che mi attraeva. Forse mi rapiva proprio perché mi inquietava.

Luisa mi raccontò di essere in vacanza con una zia, che era malata e non poteva uscire. Io, quella zia, non la vidi mai. Luisa, invece, la vidi sempre fuori casa. Sullo stesso muretto, sul prato, o in strada, scalza. Nessuno in paese la conosceva. Eppure, il mio era un paese piccolo, anche i villeggianti erano sempre gli stessi. Nessuno conosceva Luisa, ma lei sembrava sapere tutto di tutti. Come se fosse già stata lì.

 

***

 

Da allora, iniziai a lasciare la bicicletta davanti alla casa dalle imposte azzurre e a fare lunghe passeggiate con lei. Mi portava in posti che non conoscevo, eppure trascorrevo le vacanze dalla nonna sin da quando ero bambino. Una serra abbandonata, una vecchia cava, un pezzo di bosco dove i rami erano così intricati da rendere quasi impossibile entrarci.

Una volta feci appello a tutto il mio coraggio e provai a prenderle la mano. Lei non si scostò. Anzi, non diede segno di aver sentito il mio tocco. Fui io a lasciarla. Era gelida.

L’ultima volta che la vidi, mi portò a un lago. Ci sedemmo su un pontile di legno.

«Non sapevo esistesse un posto del genere da queste parti» dissi.

«Esiste per te. Solo tu puoi venirci» rispose. E mi baciò.

Fu un bacio silenzioso, improvviso. Il mio primo bacio, capite? Volete sapere come fu? Be’, avete mai mangiato la neve? Da bambini lo fanno tutti. Le sue labbra sapevano di neve. Di nuovo sentii un freddo profondo, che mi gelò fino al cuore.

Quella notte la sognai. Aveva i capelli bagnati e l’abitino bianco le aderiva alla pelle. L’erba ondeggiava, era alta, le copriva i piedi scalzi. A un certo punto, Luisa prese a sfaldarsi, in un pulviscolo lucente che il vento portava via. A partire dai suoi incredibili capelli rossi. Non ne ho più visti di capelli così. E, forse, non li ho visti nemmeno allora.

Mi svegliai di colpo. Andai davanti alla casa dalle imposte azzurre. Luisa non c’era. Mi feci coraggio, ed entrai dal cancello. Percorsi il vialetto e solo allora mi accorsi che l’erba arrivava fino alle ginocchia. Come quella del sogno, pensai rabbrividendo.

Arrivai alla porta. Bussai. Chiamai. Nessuna risposta. Provai la maniglia. Era aperto. Dentro, solo lo spiraglio di luce che trapelava dalle imposte inchiodate e l’eco dei miei passi. La casa era vuota, polverosa. Sembrava non ci entrasse nessuno da tempo immemore.

Scappai. Corsi dalla nonna.

«Hai visto la ragazza coi capelli rossi che sta nella casa qua accanto?» le chiesi, ansimando.

«Quale ragazza?» mi chiese la nonna, col sorriso curioso che riservava ai discorsi, ben rari, che riguardassero me e un qualsiasi essere vivente di genere femminile. «Lì non ci abita nessuno da chissà quanto.»

Fu talmente risoluta che non provai nemmeno a raccontarle che avevo passato giorni e giorni a parlare con quella ragazza. Che ci avevo fatto lunghe passeggiate. Che l’avevo baciata e sapeva di neve. Cioè, mi aveva baciato lei, io non avrei mai trovato il coraggio di farlo.

«Luisa. Si chiama Luisa» dissi solo.

La nonna mi fissò con uno sguardo serio. Smise di sorridere.

«Vieni con me.»

***

Il cimitero era sulla sommità di una collina, godeva della vista più bella del paese. Un vialetto di ghiaia lo tagliava in due. Le tombe erano poche, spesso prive di fiori o di ogni forma di ricordo.

Mia nonna si fermò davanti a una lapide di marmo bianco. Era strana, non riportava il cognome per interno. Diceva solo:

LUISA M.

Giorno e mese della morte coincidevano con il giorno del sogno in cui lei svaniva nel vento. L’anno, invece, era risalente nel tempo. Ben prima che io nascessi. Abbastanza per cancellare il ricordo e per trasformare una casa in un luogo d’abbandono.

 

***

 

Trascorsi l’autunno in città a frugare negli archivi dei giornali. Alla fine trovai la notizia: fuga di gas in una casa del paese, due vittime. Un’anziana disabile e la nipote, in visita estiva, che stava facendo il bagno. Ecco perché, nel sogno, Luisa aveva i capelli bagnati.

Qualcosa di lei era rimasto in quella casa. O, forse, c’era tornato per me. Per darmi il primo bacio. Tipico degli adolescenti, credersi al centro di tutto quello che succede nel mondo.

Nel corso degli anni, mi convinsi di aver vissuto un’allucinazione. Una febbre estiva. Un colpo di calore.

In paese vado ancora. Ho smesso di fare i giri in bicicletta, ma mi piace passeggiare. Così mi capita di finire in posti che non conosco. Lì, la luce diventa troppo intensa. Si mangia i colori, ma fa emergere le ombre.

Davanti alla casa dalle imposte blu, allora, mi sembra di distinguere una ragazza con un vestito bianco. Mi saluta dondolando le dita. E io non riesco a muovermi. Certe estati non finiscono mai. Restano ferme, in un punto preciso del tempo. Aspettando che qualcuno ritorni. 

L’autore

Giuliano Pasini, 50 anni, è nato a Vignola, è cresciuto a Zocca sull’Appennino modenese, e vive a Treviso dove è socio di una delle principali agenzie di comunicazione italiane. Debutta nella narrativa con “La giustizia dei martiri”, poi pubblicato a gennaio 2012 con il titolo “Venti corpi nella neve” da Fanucci e tradotto anche all’estero.

Nel 2013 e nel 2015 sono usciti per Mondadori “Io sono lo straniero” e “Il fiume ti porta via”, 3° romanzo con protagonista Roberto Serra. Nel 2023 “È così che si muore” (Piemme), a fine 2024 “L’estate dei morti”, sempre con Serra, affiancato dalla partner di indagini Rubina Tonelli. All’inizio del 2026 uscirà il suo nuovo romanzo, ambientato a Treviso.

 

Riproduzione riservata © il Nord Est