Un’estate finta messa sotto vetro ma esisteva davvero

Quel dipinto ingenuo raccontava sogni, viaggi, illusioni e nostalgie autentiche. Poi la vita lo raggiunse, portando con sé la stagione delle promesse

Lucia Valcepina
“Playa de los Muertos”: risuonava in me come una romanticheria senza precedenti
“Playa de los Muertos”: risuonava in me come una romanticheria senza precedenti

«È l’estate» rispondeva mia madre quando le facevo notare che quel quadretto appeso sopra la mia scrivania, dentro quella cornice di legno, era poco più che uno sgorbio. L’opera di una mano inesperta in cerca di uno stile che, probabilmente, non avrebbe mai trovato. La spiaggia troppo bianca, il mare troppo turchese, il sole troppo giallo e quello scoglio buttato lì, come una staccionata, a chiudere la composizione perché non tracimasse per eccesso di tempera.

Si trattava di uno di quei souvenir rubati a una vacanza, acquistato presumibilmente in uno degli ultimi pomeriggi di ferie, nelle ore più sciocche e malinconiche, quando, in un negozio di cianfrusaglie, doveva essere parso un oggetto dignitoso, se non altro perché realizzato a mano, in mezzo a una paccottiglia di orrori in plastica.

D’accordo, ma da dove proveniva? Nessuno sembrava ricordarsene. Forse da un villaggio della Sardegna, oppure da un’area protetta del Cilento, ma avrebbe potuto trattarsi benissimo anche di una baia pugliese, la meta più gettonata dalla mia famiglia nelle sue sporadiche vacanze. In ogni caso, l’assenza di ricordo era eloquente: nessun aneddoto pittoresco o curioso per un dipinto verso il quale ciascuno di noi provava una sorta di irritazione mista a rispetto. Perché era “l’estate”, valeva a dire l’espressione spudorata di un momento libero, arioso, con quel tocco di vitalità di cui tutti eravamo segretamente affamati.

Del resto, in quella casa di montagna dell’Alta Valtellina, in un paese a milleduecento metri di quota dove l’autunno era un tripudio di arancioni e ruggine, l’inverno un maestoso scenario imbiancato, la primavera un fiorire di crochi e primule, l’estate era poco più che un miraggio. Una proiezione del pensiero, intensa ma fulminea. E il bozzetto era lì a testimoniare che, persino nei giorni di pioggia o nelle serate più tetre, quando la luce si riduceva al nulla e la legna crepitava nel camino, da qualche parte nel globo, esisteva un angolo di mare in cui regnava una stagione bella per necessità.

***

Quante volte lo osservai, nel terribile luglio dell’87, quando un boato ci avvisò che una frana si era staccata dalla testa della Val Pola con i suoi quaranta milioni di metri cubi di terra, sassi e fango, dopo due settimane di nubifragi, travolgendo gli abitati di Aquilone e Sant’Antonio, ridisegnando i contorni del territorio e il nostro senso d’identità, mentre i fiumi invadevano le strade, gli alberi rantolavano sul selciato e noi ragazzini venivamo chiusi in casa. In quel periodo che aveva le fattezze del più cupo novembre, il quadretto era lì a prometterci tempi migliori. Fedele a un’idea zuccherosa, ma salutare, d’estate.

Così, ogni qual volta le pareti della mia stanza venivano ritinteggiate e i mobili riposizionati per lasciare spazio a una mensola o a un poster, quell’immagine restava, magari un poco più a sinistra, un filino sotto o leggermente di lato. Se l’avessi rimossa, era chiaro, lo spirito dell’estate mi avrebbe abbandonata.

Tanto più nel corso dell’adolescenza quando, vampira refrattaria alla luce, pensavo che un talismano fosse necessario, nel compromesso con la vita, per non confondermi del tutto con le ombre. E poi si trattava di un ponte verso quell’umanità che aspettava il Ferragosto per alzarsi all’alba, caricare l’auto, scendere in pianura, imboccare le autostrade, mettersi in coda e soffocare d’afa e di smog in attesa di un volo, una traversata, un tuffo nel mare. Un mare stucchevolmente turchese, come un tubetto di colore spremuto su un supporto, in mancanza di tecnica e d’idee.

Finché un giorno, un piccolo fatto epocale scombinò i miei orizzonti: la mia prima vera vacanza lontano da casa, la prima in compagnia di un ragazzo che, nel giro di pochi mesi, primaverili e montani, mi aveva fatto credere che si potesse vivere l’estate, nel senso pieno del termine, a patto di essere innamorati.

***

Il viaggio era stato interminabile, con attraversamento della Valle in treno fino a Milano e prima tappa in pullman da Piazza Castello a Barcellona. L’itinerario: un percorso fumoso lungo la Penisola Iberica, chilometro dopo chilometro, da nord a sud senza compromessi, scegliendo le località in base all’efficacia del servizio pubblico. Destinazione finale: un promontorio nella provincia di Almería, affacciato sul Mediterraneo.

F. e io vi giungemmo nel tardo pomeriggio, con degli zaini sovradimensionati sulle spalle, le fiacche ai piedi e un desiderio spasmodico di bocadillos de jamón Cinco Jotas.

In un territorio arido, punteggiato di cactus, fichi d’india e ripide scogliere, sostammo nei pressi di un mirador e poi ci incamminammo lungo un sentiero, tra le rocce e il pietrisco, finché, nel momento in cui la stanchezza andava colorandosi di strane impressioni e il vuoto allo stomaco si univa all’ebbrezza di un colpo di sole, una visione mi paralizzò. Davanti a me, attraverso le lenti di un paio di occhiali a farfalla, vidi la stessa spiaggia chiara, lo stesso mare cristallino e lo stesso scoglio del quadretto appeso nella mia stanza.

Mi stropicciai gli occhi con un senso di stordimento per riaprirli un attimo dopo sul medesimo scenario. Di nuovo quei colori netti, privi di venature, la banalità del cielo, la purezza dell’acqua, le stesse transizioni repentine.

Nessuno della mia famiglia aveva mai visitato la Spagna, ma quel dipinto aderiva perfettamente al panorama. Forse era stato realizzato nell’esatto punto in cui mi trovavo e, una volta attraversata l’Andalusia, dopo un imbarco su un aereo o un traghetto, era giunto in una località di mare in Italia, dove mani gentili l’avevano esposto in una vetrina affinché qualche passante decidesse di acquistarlo. Per finire in una casa di montagna, in Valtellina, a milleduecento metri di quota.

C’era qualcosa di prodigioso in quella visione. Persino il nome del luogo, “Playa de los Muertos”, risuonava in me come una romanticheria senza precedenti. Avevo la certezza che se avessi fatto un passo avanti e fossi entrata nel dipinto, l’incanto e lo spirito dell’estate sarebbero sopravvissuti a qualsiasi stagione.

«Che succede?» mi chiese F. notando la mia improvvisa euforia.

«Mi pare di conoscere questo posto».

«Davvero? Ci sei già stata?»

Vidi scorrere di fronte agli occhi i fotogrammi dei miei vent’anni, scossi la testa sorridendo.

«Allora è un déjà-vu» commentò F. carezzandomi i capelli.

Osservai la spiaggia con un senso di aspettativa e di eccitazione, mi parve che avvampasse di colori.

«No» risposi con sicurezza, «è l’estate». —

 

L’autrice

Scrittrice e performer, scrive sugli inserti culturali del giornale La Provincia di Como, Lecco e Sondrio. Ha pubblicato saggi di drammaturgia per la rivista Comunicazioni sociali, reportage sociali e artistici, il racconto sonoro “Alfred e Jack” per Fabbrica dei Segni (con Lux Bradanini), e curato alcuni volumi. Ha ideato e portato in scena monologhi e spettacoli sui temi del precariato, della postmodernità e sulle voci letterarie del ’900, collaborando con artisti e gruppi. Nel 2022, ha pubblicato il suo primo romanzo, “Il paradosso dell’ossigeno” con Dominioni editore, e nel 2024, la biografia romanzata “Primordiale bellezza” (vita e opere dell’astrattista comasca Carla Badiali).

Riproduzione riservata © il Nord Est