E passò l’estate in cui Luca imparò a sentire

Al concerto il cielo era cupo, c’erano le nuvole e la pioggia cadeva sottile. Che amore travolgente, neppure i Cure avrebbero saputo raccontarlo

Massimiliano Nuzzolo

L’anno era volato, la scuola praticamente finita, e l’estate si faceva carica di sole. Luca aveva sedici anni e stava nel suo limbo, fatto di grandi domande che ancora non trovavano risposta. Aveva però scoperto i Cure, una band inglese davvero fantastica, e avvicendato i vecchi amici e i vecchi colori con nuove compagnie e vestiti neri, senza però cambiare di molto le abitudini. L’attività primaria rimaneva stare per ore seduti sul muretto sotto casa a chiacchierare senza curarsi del mondo.

Da lì gli capitava spesso di vedere Beatrice. La conosceva dall’asilo: bella e complicata, gli aveva rivolto al massimo venti o trenta parole, saluti compresi, in tutto quel tempo. Quando passava restavano tutti in silenzio. Era bella mentre camminava nelle sue All Stars rosse fumando distratta una sigaretta. Con gli occhi contornati di nero e i capelli mossi assomigliava a un felino indomabile. Figlia di una sessantottina che aveva sposato un imprenditore, Bea era l’incrocio tra i due mondi.

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Quel giorno Bea gli passò davanti senza degnarlo di uno sguardo, si fermò, tornò indietro e gli parlò come se lo avesse sempre fatto: «Vieni a vedere i Cure a Cittadella?» . Luca fu colto di sorpresa, più perché Bea gli aveva rivolto la parola che per la domanda. La guardò, sorrise e disse solo: «Certo». «Allora ci vediamo là» rispose Bea senza scomporsi e se ne andò. Luca in realtà non avrebbe saputo nemmeno come arrivare a Cittadella, dal momento che pochi dei suoi amici avevano l’auto. Inoltre occorreva chiedere il permesso ai suoi. Ma per i Cure e per Bea questo e altro.. .

A Cittadella il cielo era cupo. La pioggia cadeva sottile. Con intensità costante dal pomeriggio aveva trasformato il prato del Campo della Marta in una distesa molle e fangosa che insieme alle nuvole creavano lo scenario ideale per vedere i Cure dal vivo.

Luca cercò Bea, la vide e andò a salutarla. C’erano pure i suoi amici. Portavano collane e giacche di pelle sdrucita sopra a magliette firmate tinta pastello, qualcuno indossava la t-shirt della band. Le ragazze erano vestite di nero come d’obbligo a un concerto dei Cure. Si vedeva che erano per lo più figli di papà come Bea, ma erano simpatici. Si passavano senza preoccupazione sigarette oppiate in mezzo alla gente.

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Bea lo accolse con un sorriso enorme. Uno dei suoi amici gli porse la canna. Luca intimidito abbassò lo sguardo e la rifiutò. Bea rise, lo prese per mano e, approfittando di un varco in mezzo alla folla, camminarono verso il palco sotto la pioggia. Luca osservò le persone. La gran parte era vestita di nero. Molte di loro avevano i capelli cotonati. Chi cantava, chi rideva, tutti parevano in trepidante attesa. Sentì ancora il profumo di canne, ma pure quello dei giubbotti di pelle e di terra bagnata. Dal palco i suoni distorti del soundcheck si mixavano alla musica d’ambiente e al calpestio di piedi nel fango, poi il silenzio.

Il pubblico esplose in un boato. Sul palco erano saliti i Cure. E Luca si sentì traportato dalle tastiere che risuonavano come campanellini intorno e poi fu travolto dal basso che gli vibrò potente nello stomaco. La voce del cantante era ipnotica e cantilenante. Bea iniziò a danzare a occhi chiusi. Aveva i capelli fradici, l’impermeabile leggero e trasparente che indossava non era servito a molto. Le si incollava addosso disegnandole il corpo.

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Luca guardò i jeans di Bea appiccicati alla pelle, la sua maglietta nera. Affascinato, non riusciva a distogliere lo sguardo. Bea aprì gli occhi e sorrise. Allungò una mano verso quella di Luca intrecciando le dita con lui e lasciandole dondolare. Quando lui rifiutò ancora di fumare, Bea fece una lunga boccata e gli posò le labbra sulle sue soffiando dentro. Un bacio caldo e umido. Luca sentì il fumo in gola, gli occhi si fecero grandi, il cuore accelerò. E come per magia, dopo pochi istanti, il concerto, già tremendamente bello, divenne meraviglioso. I colori sembravano ora più vividi, i suoni più profondi. Gli parve di poterli respirare. Non aveva mai provato niente del genere in vita sua.

Bea si fece dare qualcosa da un amico. «Vieni con me» sussurrò. E trascinò Luca tra i corpi bagnati nel buio squarciato dai proiettori e dalla musica ad alto volume. Lui la seguì. Stonato dal fumo, dalla pioggia e dal suono, incantato dal calore delle dita di Bea.

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Arrivarono in parcheggio e salirono su una Golf nera. Bea sfiorò il viso di Luca. Lo baciò profondamente, si tolse la maglietta, lo spogliò, accarezzandolo ovunque come se volesse imparare a memoria quel corpo e scrivere insieme a lui un nuovo atlante di pelle e sospiri. Lui per un momento restò immobile, poi l’aiutò. Pelle, unghie, labbra, capelli, gemiti, parole sussurrate. Imparava a sentire. Ogni centimetro di Bea con ogni centimetro di sé. La musica dei Cure risuonava ovattata dall’esterno, pareva accompagnare i loro movimenti, fondersi ai loro respiri. Sui finestrini ormai completamente appannati le gocce d’acqua esplodevano creando piccoli fuochi d’artificio sotto la luce dei lampioni, mentre l’auto si animava sempre più al ritmo della pioggia. Poi si fermò.

Luca e Bea restarono avvolti nella notte per un po’. Si rivestirono, scambiando sorrisi complici e tenendosi per mano tornarono al concerto per ascoltare le ultime canzoni. Fu bellissimo. Poi il concerto terminò e Luca e Bea si salutarono con gli occhi carichi di promesse d’amore per ritornare ognuno ai propri amici e al proprio rientro a casa.

Luca non parlò più, rapito da una realtà che era più bella del sogno.

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Che amore travolgente li cullò per dieci giorni esatti. Nemmeno i Cure avrebbero saputo raccontarlo. Ma avrebbero di certo scritto una canzone tristissima il giorno in cui Bea rivelò a Luca che sarebbe partita per le vacanze studio a Londra. Luca non disse niente, ma quelle parole lo disintegrarono. Bea lo rassicurò: «Ti telefonerò ogni giorno». Luca rispose «Sì». Teneva gli occhi bassi. Anche se non sapeva ancora come vanno queste cose, avvertiva dentro una dolorosa sensazione. E, in effetti, le cose andarono proprio così. Dopo poche settimane nessuno telefonò più. Luca si chiuse in camera ad ascoltare in loop i dischi dei Cure e ogni nota gli scavava dentro, ma mai quanto il trillo del telefono in casa.

E quell’estate in cui imparò a sentire passò. Anche Bea passò. Quando la rivide a scuola era solo un ricordo. Ma come un tatuaggio invisibile gli rimane ancora addosso, indelebile, quella prima volta che sa di pelle, di pioggia e di Cure.

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