Verso le Olimpiadi: D’Incal, il maestro dello sci nordico
Il tecnico bellunese ha partecipato a 9 edizioni dei Giochi: «La nostra staffetta ammutolì duecentomila norvegesi. A ottant’anni mi sono ritirato ma in Val di Fiemme sarò presente, punto molto su Pellegrino e Barp»

Compirà ottant’anni il prossimo 8 marzo, quando le Paralimpiadi Milano Cortina 2026 avranno raccolto da un paio di giorni il testimone dalle Olimpiadi. Ottant’anni vissuti nella neve e per la neve, nello sci e per lo sci. Stiamo parlando di Dario D’Incal, classe 1946, uno che di Olimpiadi – ma anche di Paralimpiadi – se ne intende, dal momento che ai Giochi è stato protagonista, nelle vesti di tecnico, per ben nove volte: da Innsbruck 1976 a Torino 2006.
Bellunese di Castion, anzi di Faverga, D’Incal ha messo gli sci a 5 anni, in Nevegal, la montagna sopra casa. Da allora, la neve non l’ha più lasciata. Nel 1970 è diventato maestro di sci (alpino) e l’anno successivo è andato alla scuola dello sport a Roma. Terminato il corso, è entrato in Fisi e, nel 1974, è stato assunto dal Coni.

In tutti questi anni ha ricoperto diversi ruoli, diventando uno degli artefici dei grandi successi dello sci di fondo azzurro degli anni Ottanta, Novanta e Duemila. È stato allenatore e responsabile della ricerca, e preparatore a responsabile della scuola tecnici federali. Anche direttore tecnico degli sci stretti, per un breve periodo, nel 2007. Dal 1994 al 2002, inoltre, è stato membro del comitato esecutivo della Fis, la federazione internazionale dello sci.
Parla volentieri del “suo” sci partendo dai Giochi.
Dario, le piacciono le Olimpiadi “diffuse” come Milano Cortina 2026?
«Sono obbligatorie: non si può fare diversamente, ora i costi per allestire i Giochi e le esigenze logistico-organizzative degli stessi sono di proporzioni enormi. Allo stesso tempo, è una scelta giusta: bisogna che le gare vengano fatte lì dove c’è tradizione, sapere, cultura, di una determinata disciplina».
Cose che non mancano in Val di Fiemme.
«Lì hanno organizzato i Mondiali del 1991, 2003 e 2023. Sanno il fatto loro, come pochi nel mondo dello sci nordico. Mi avevano chiesto di collaborare e di questo li ringrazio, ma ho declinato: ho fatto il mio tempo, è giusto che ora vadano avanti altri. Sicuramente un salto in Trentino lo farò per vedere qualche gara».
Cosa potranno fare gli azzurri in Val di Fiemme?
«Credo dei buoni piazzamenti di sicuro. E con un po’ di fortuna anche una medaglia. Abbiamo un veterano come Federico Pellegrino, che ha dimostrato di sapere fare grandi cose quando ci sono gli appuntamenti che contano. E abbiamo dei giovani, penso ad esempio al bellunese Elia Barp, che rappresentano delle belle speranze: in Coppa del Mondo hanno già dato dei segnali importanti. Dobbiamo dare comunque loro il tempo di crescere».
In pochi hanno partecipato a tante Olimpiadi come lei.
«A otto ho partecipato come tecnico della squadra azzurra: Seefeld 1976, Lake Placid 1980, Sarajevo 1984, Calgary 1988, Albertville 1992, Lillehammer 1994, Nagano 1998, Salt Lake City 2002. A una, Torino 2006, come assistente di gara per il fondo, cui è seguita l’esperienza come responsabile delle gare del fondo delle Paralimpiadi».
Da Innsbruck a Torino, è cambiato il mondo.
«Nel 1976 c’erano ancora gli sci di legno e tante cose erano diverse: la preparazione, l’organizzazione delle squadre, la pressione dei mass media e degli sponsor. Ora è tutto molto più commerciale, mentre quando ho cominciato una delle più grandi ambizioni era quella di poter vivere l’atmosfera del villaggio olimpico. Era un’atmosfera semplice. A Seefeld, si poteva vincere l’argento in staffetta se uno dei quattro atleti non avesse preso gli sci sbagliati al mattino. Sempre per Seefeld, ricordo la pazza 30 chilometri: si è iniziato con meno 15 gradi e si è finito a + 15. Lo statunitense Bill Coch si salvò sciando con quello che sarebbe divenuto il passo di pattinaggio».
Vale di più l’oro della staffetta di Lillehammer 1994 o quello di Torino 2006?
«Sono due ori pazzeschi. Certo che vincere in un territorio sacro per lo sci come Lillheammer… Della staffetta 1994 ricordo anche un episodio divertente: la mattina della staffetta con Fauner stavo effettuando il riscaldamento e a bordo pista i tifosi norvegesi canzonavano Silvio chiamandolo “macaroni”, “spaghetti” e, a me che arrancavo dietro Silvio, “lasagna”. Poi però Silvio ha fulminato Bjorn Daehlie e conquistato l’oro. I duecentomila norvegesi ammutolirono …».
A proposito di territori sacri norvegesi: come hanno ridotto la 50 chilometri di Holmenkollen.
«Come se nel ciclismo eliminassero la Parigi Roubaix. Sono state apportate tante innovazioni al calendario, molte non positive. Tra le cose che non mi piacciono, l’eccessivo numero di gare sprint».
Ha allenato tanti campioni azzurri. Tra questi, Maurilio De Zolt. Una definizione per il “Grillo” ?
«Il più forte di tutti. Un atleta anomalo, alto meno di un metro e settanta per 69 chili in molti si chiedevano se potesse essere un fondista uno con un fisico del genere. Ma Maurilio era una potenza della natura, dotato di motore incredibile ma anche di volontà e di carattere. Era, inoltre, uno che voleva sapere il perché delle cose».
E Silvio Fauner?
«Forte fisicamente e tecnicamente, tattico sopraffino».
Giuseppe Puliè?
«Un atleta che in tecnica classica era stupendo».
Pietro Piller Cottrer?
«Fortissimo nello skating, intelligente, un inseguitore eccezionale».
La soddisfazione più grande di Dario D’Incal in tanti anni di lavoro nello sci?
«Il rispetto degli atleti».
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