Thoeni, storia di un fenomeno sugli sci senza tempo

La leggenda silenziosa di un fuoriclasse assoluto: ricordi, montagne, trionfi e una vita dedicata allo sci. «Ai Giochi c’è tantissima pressione, inevitabile, specie per chi li disputa in casa»

Gianluca De Rosa
Gustav Thoeni è considerato uno dei più grandi campioni di tutti i tempi dello sci alpino. Alle Olimpiadi vinse tre medaglie
Gustav Thoeni è considerato uno dei più grandi campioni di tutti i tempi dello sci alpino. Alle Olimpiadi vinse tre medaglie

Classe 1951, Gustav Thoeni ha scritto pagine indelebili nella storia dello sci a tutto tondo. Un fenomeno, l’uomo silenzioso di Trafoi, che con le sue gesta contribuì a trasformare quello che agli albori degli anni Settanta era “roba per pochi” in vero e proprio movimento di massa. L’Italia deve tanto a quell’uomo schivo, nato e cresciuto lungo i tornanti dello Stelvio.

Lo stesso uomo che, a sua volta, tanto ha dato all’Italia in termini di risultati. Thoeni ha vinto tutto: quattro coppe del mondo generali (’71, ’72, ’73 e’75), cinque coppe del mondo di specialità e poi i mondiali, senza dimenticare le Olimpiadi: medaglia d’oro nello slalom gigante e argento nello speciale a Sapporo ’72, argento a Innsbruck ’76, quattro anni dopo.

Olimpiadi di ieri, Olimpiadi di oggi: iniziamo da qui?

«La partecipazione ad una Olimpiade rappresenta la consacrazione per qualsiasi atleta. Il sogno di una vita, rincorso tra rinunce e sacrifici, che tutto d’un colpo diventa realtà. Lo è stato anche per me. L’Olimpiade rappresenta la massima aspirazione per chiunque, e quando arriva anche la vittoria più bella. Dopo Sapporo conobbi la fama, per me fu difficile abituarmi ai riflettori. Caratterialmente ero schivo, a me piaceva solo sciare, il resto era tutto contorno. Diciamo pure che quel contorno non rappresentava il mio mondo. Sono nato in un piccolo paesino di montagna, la mia dimensione era ed ancora oggi resta quella. Ma per le Olimpiadi si fa volentieri uno strappo alla regola. Mi auguro che alle Olimpiadi di Milano-Cortina la nostra Italia possa festeggiare qualche medaglia, la speranza c’è. Peccato per l’infortunio di Federica Brignone ed aggiungo anche quello di Marta Bassino. La squadra dello sci alpino azzurro femminile purtroppo viene molto ridimensionata da questi due brutti stop».

A Gustav Thoeni sarebbe piaciuto disputare un’Olimpiade invernale sulle piste di casa?

«C’è tantissima pressione ma è anche inevitabile. Tutti attendono al varco i nostri atleti, per loro la marcia di avvicinamento al grande evento non si presenta per nulla facile. Ricordo quanto successe a Giorgio Rocca nel 2006 a Torino. Veniva da cinque vittorie di fila in coppa del mondo ma i risultati olimpici non furono a quel livello. L’attesa era spasmodica, questo influì sul suo rendimento in pista. No, se devo rispondere, direi di no. Non mi sarebbe piaciuto per i motivi appena esposti, anche se Innsbruck, nel 1976, di fatto era a due passi da casa».

Il tempo passa ma il mito di Gustavo Thoeni rimane.

«Il tempo passa, esattamente. E tante cose cambiano. Intanto mi verrebbe da fare un piccolo esempio. Ai miei tempi, quando vincevo in pista, i tifosi mi chiedevano un autografo. Oggi vanno di moda i selfie. Trafoi è il mio ombelico del mondo. Lì tutto iniziò e lì oggi continuo a vivere. Il tempo cambia e lo vedi anche da ciò che ti circonda. Sono un nonno con dodici nipoti, praticamente sciano tutti. Abbiamo ricreato una piccola e rumorosa valanga azzurra. La gestione dell’albergo di famiglia mi vede sempre in prima linea, anche adesso che stiamo completando una serie di lavori di ristrutturazione. Contribuisco per quel che posso. Do una mano dove serve».

Tornando indietro nel tempo, magari facendo ricorso al best seller di Wells, cosa vede oggi davanti ai suoi occhi Gustav Thoeni?

«Vedo le mie montagne, quelle che mi hanno visto crescere e mettere gli sci ai piedi per la prima volta. Accadeva proprio dietro la chiesetta di Trafoi, a due passi dall’albergo di famiglia. C’era un campetto, facevamo lì le prime discese. Eravamo un gruppetto di ragazzini spensierati. C’era anche colui che poi diventò il parroco del paese. Imparò a sciare anche lui insieme a noi. Diventò anche maestro di sci».

Inevitabile un richiamo alla mitica Valanga Azzurra: cosa rappresentò quel periodo e cosa rappresenta ancora oggi per lei?

«La valanga azzurra era semplicemente una squadra che vinceva tantissimo. Era una squadra fortissima ed affiatatissima. Ci piaceva sciare e ci piaceva anche stare insieme. Si era creata quella che oggi viene definita come l’alchimia perfetta. Il resto venne da sè. Siamo tutti felici ed orgogliosi di aver contributo alla crescita del movimento sciistico sul territorio italiano. Oggi ci sono i ricordi. Che, devo ammetterlo, fanno piacere. La gente mi incontra per strada e mi ferma per farmi i complimenti. Succede a me, ma succede anche ai miei amici e colleghi del tempo, su tutti Pierino Gros. Ci hanno sempre inquadrato come compagni di squadra rivali, ma non è vero. Poco tempo fa eravamo a Roma per una manifestazione legata proprio al documentario La Valanga Azzurra. Camminavamo l’uno al fianco dell’altro quando ci fermarono due signori della nostra stessa età. Lo stupore sul loro volto: “Thoeni e Gros insieme, quindi non vi state antipatici”. Scoppiammo tutti e quattro in una risata. Fu quella la migliore risposta».

Chiusura dedicata ad un altro mito dello sci azzurro, Alberto Tomba.

«Qualcuno forse non lo sa, ma sono stato allenatore della nazionale italiana seguendo da vicino la crescita di Alberto, un mito. Il mio mito». —

 

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