Il nostro dovere nel nome di Giulia: educare alla libertà delle donne

Ogni femminicidio ci interroga come comunità: dove abbiamo fallito nel parlare di amore? Troppi uomini scambiano la relazione con il possesso. Dal lì nascono controllo, rabbia e possesso

Fulvio ErvasFulvio Ervas
Giulia Cecchettin
Giulia Cecchettin

Ogni femminicidio mi turba. Come padre di una figlia, e anche come persona che si ritiene civile.

Ma devo riconoscere che l’uccisione di Giulia Cecchettin mi colpì ancora più profondamente e continua a smuovermi dentro. Lo fu per la giovane età della vittima e dell’omicida, perché entrambi stavano nel mondo universitario, dove si immagina possano esistere strumenti per navigare nell’oceano della vita e, naturalmente, per la vicinanza del caso. Ancor più forte fu l’emozione quando vidi la foto di Giulia che suscitava subito empatia: un volto dolce, un sorriso delicato. Una persona preziosa.

Ora la giustizia pare aver fatto il suo corso. Come un fiume giunto al mare dove si mescolerà ai tanti casi di violenza sulle donne.

Certo, la giustizia non può restituire ciò che è stato tolto, non può lenire il dolore. Accerta i fatti e le responsabilità. E ci mancherebbe. Ma aver diluito il tema della crudeltà dell’assassino è, forse per i miei limiti personali, difficile da comprendere, perché se c’è uno “stile” con il quale si è uccisi, questo non può essere ridotto alla mera conta dei colpi inferti.

Bisogna tuttavia accettare che la giustizia non può spingersi dove dovrebbe agire una comunità con le sue forze culturali ed educative. Perché la sfida, che rimane a noi, è nel capire che Giulia e Filippo avrebbero potuto costruirsi altre vite se come comunità fossimo stati qualitativamente più evoluti.

Il padre di Giulia ha saputo affrontare lo tsunami emotivo e trovare una direzione: l’impegno per trasmettere il bisogno di un’evoluzione, sempre urgente, nei rapporti tra uomini e donne. Sono visioni dalle quali lasciarci contagiare, antibiotici contro l’infezione della violenza di genere. Che nasce dentro il nostro modo di organizzare la società.

Per tenere assieme le grandi società umane, perché esse assumano il volto di civiltà, sono state necessarie invenzioni culturali che dessero strumenti, e regole, al nostro bisogno di socialità e cooperazione.

Al bisogno di una relazione di coppia abbiamo risposto con l’invenzione dell’amore romantico. Invenzione antica, alla quale stiamo aggiungendo la precisazione, recentissima, che quell’amore non deve implicare possesso.

È una precisazione necessaria affinché i partner non si formino l’errata convinzione che il rapporto possa appiattirsi su un unico pensare; che le dinamiche di relazione, la sua intensità ma anche la sua possibile transitorietà, discendano da una sola centralina di comando.

È una precisazione che vuole avvertire: l’aver detto ti amo non è un vaccino definitivo per frenare l’odio verso il proprio partner quando si entra in acuto conflitto.

Perché dichiarare amore è sin troppo facile. Comprenderne la natura e le implicazioni è la vera sfida personale e culturale. Psicanalisti e persino biochimici possono illuminarci sulle dinamiche dell’amore e sulla sua natura profondamente chimica e persino genetica, ma il punto concreto è che la naturalità dell’istinto amoroso deve essere affiancata dall’educazione ad esso.

Non a caso l’educazione all’affettività è il tema che, correttamente, si sta ponendo anche nelle scuole (certo non facile da affrontare).

È un nodo storico del nostro sviluppo che non si può più eludere: produce troppi danni, troppe vittime e, lo sappiamo bene, si tratta soprattutto di donne. La mano che colpisce è, in larga parte, maschile.

Parrebbe la manifestazione crudele di un corpo maschile nutrito da esempi, e suggerimenti comportamentali, derivanti da visioni deformi degli affetti.

Fortunatamente c’è impegno, nelle società più moderne, per andare in un’altra direzione. Il riconoscimento del valore femminile e la parità di diritti, almeno sulla carta, sono comuni da Roma a Stoccolma. Lì, sinceramente, un po’ di più.

Ma l’obiettivo, anche nei Paesi più determinati, non è ancora raggiunto: indagini statistiche affermano che anche nel Nord d’Europa la violenza di genere non è evaporata e che talvolta il ricorso ad essa deriva proprio nell’avanzata sociale delle donne, vissuta come urticante da una parte maschile. Qui da noi, altre statistiche raccontano la correlazione tra condizione economica e difficoltà nel risolvere i rapporti di coppia, condizione che crea un humus per violenze anche gravi. Dove non arriva la cattiva idea dell’amore arriva la povertà.

Siamo in grado di appianare questi conflitti?

Economicamente ancora no. Sul piano della cultura degli affetti ci sono sforzi: emerge la coscienza dell’inesistente superiorità derivante dall’essere nati maschi piuttosto che femmine. Che tali presunte superiorità sono solo costruzioni sociali e culturali, narrazioni che possono essere studiate e cambiate. Riconoscendo che l’amore non è possedere la maggioranza delle azioni di una società, ma un percorso di relazione entro la foresta del vivere e che l’energia che muove quel procedere non è solo conoscenza e rispetto, ma la convinzione che la foresta non sia una gabbia e che ci si può tenere per mano ma anche accettare che ognuno possa scegliere altri sentieri. In libertà. In altre vite. Vivi.

Non è una strada in discesa. Né breve.

È necessaria. Vitale. L’impegno delle persone civili deve portarci lì.

Per tutte le Giulia (e le figlie) di questo mondo. —

 

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