Un anno della fondazione Cecchettin, Gino: «Trasformiamo il dolore in impegno»
Il padre della ragazza vittima di femminicidio: «Mia figlia voleva vivere, io non posso sprecare la vita. Perdonare Turetta? Ora è difficile»

Un anno di dolore trasformato in impegno. Un anno in cui la ferita di una famiglia e di una comunità è diventata opportunità di crescita collettiva. A dodici mesi dalla nascita della Fondazione Giulia Cecchettin, è tempo di bilanci. Ieri a Palazzo Marino, sede del Comune di Milano, è stata tracciata la rotta di un progetto che ha concentrato il suo intervento soprattutto su educazione e prevenzione, con un’attenzione particolare alle nuove generazioni, ma anche sul sostegno concreto alle vittime e sulla sensibilizzazione dell’intera comunità, iniziando dai luoghi di lavoro. Una missione su più fronti che parte dall’impegno personale del presidente Gino Cecchettin, che in questo anno ha incontrato oltre 12 mila giovani in tutta Italia, portando la sua testimonianza diretta nelle scuole, in eventi pubblici e festival. «La forza di papà Gino è enorme ed è uno sprone per tutti noi» ha evidenziato il sindaco di Milano, Beppe Sala.
Gino Cecchettin, qual è il senso della fondazione?
«Combattere la violenza di genere significa affrontare un sistema di pensiero che, ancora oggi, giustifica il dominio su donne e minoranze. La vera sfida è un cambiamento culturale profondo, che deve nascere dall’educazione e dall’impegno collettivo. L’impegno di ciascuno conta: solo unendo le forze possiamo costruire una società in cui rispetto e uguaglianza siano la norma, non l’eccezione. Questo è il cuore della nostra missione».
Quali sono le iniziative già avviate?
«Abbiamo presentato diversi progetti. Uno di questi, in collaborazione con l’Università di Firenze, è rivolto alla formazione degli insegnanti della scuola primaria, perché è lì che si inizia a costruire la cultura del rispetto. Abbiamo attivato partnership con aziende come Veritas e Coop per formare i dipendenti, promuovendo modelli più giusti e rispettosi».
E sul fronte del sostegno alle vittime?
«Abbiamo avviato una collaborazione con Differenza Donna per la nascita di un nuovo centro antiviolenza a Roma. Inoltre, stiamo finanziando la formazione di 180 agenti di polizia, affinché abbiano strumenti adeguati per affrontare situazioni di violenza con maggiore consapevolezza e competenza. Altri progetti ancora con Dire».
Guardando al futuro, quali saranno i prossimi passi?
«Continueremo a puntare sulla formazione, cercando di estendere le nostre attività ad altri ambiti e contesti. La cultura del rispetto deve diventare un linguaggio comune, trasversale, in ogni luogo della vita».
La formazione, quindi, è la chiave?
«È uno degli elementi fondamentali. Formare significa condividere una visione diversa del vivere insieme, dove l’altruismo, il rispetto e l’ascolto siano valori centrali. Dobbiamo sradicare gli stereotipi che fanno del possesso un principio di relazione. Solo così possiamo costruire una società diversa».
In questo anno ha percepito un cambiamento nella mentalità?
«Parlare di un vero cambiamento è ancora prematuro. Però sì, ho notato una maggiore sensibilità, una voglia di affrontare il tema. Alcune persone si sono fatte agenti di cambiamento, altre hanno sviluppato una nuova consapevolezza. Ma non basta: serve un coinvolgimento molto più ampio, e costante. È un cammino lungo, che riguarda tutti».
Le istituzioni stanno facendo abbastanza?
«Potrebbero sempre fare di più. Serve un sostegno concreto ai centri antiviolenza, ma anche un impegno forte sul piano culturale ed educativo. Bisogna introdurre l’educazione alla sessualità e all’affettività, incentivare l’intelligenza emotiva. Le istituzioni hanno gli strumenti per incidere davvero».
L’11 novembre saranno due anni dal femminicidio di sua figlia Giulia, come ha imparato a convivere con un dolore come questo?
«Non ho avuto altra scelta. Cerco ogni giorno di trasformare quel dolore in una spinta a cambiare le cose. Questo è lo scopo della fondazione. Voglio che dal nostro dolore non nasca altra sofferenza. Cerco momenti di felicità con la mia famiglia, con Davide ed Elena. Nella consapevolezza che la vita è sacra, Giulia avrebbe voluto tantissimo poterla vivere e noi non possiamo permetterci di sprecarla».
Si avvicina il giorno del processo d’appello. Cosa si aspetta?
«Nulla. Mi aspetto che la giustizia faccia il suo corso. Parteciperò, come cittadino, perché credo sia giusto onorare questo appuntamento. Ma il mio impegno, oggi, è altrove. È nella fondazione, nel cambiamento che vogliamo costruire».
Pensa che un giorno sarà possibile perdonare Filippo Turetta?
«Il perdono è un processo. Deve partire da entrambe le parti e richiede tempo, consapevolezza, responsabilità. L’ho già detto: ci sono dei percorsi, dei livelli di coscienza diversi. In questo momento mi è difficile immaginarlo».
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