Due anni dopo il femminicidio di Giulia, il solo modo di ricordarla è dire basta
Due anni dopo ti guardi indietro e ti chiedi cosa è rimasto. Cosa è cambiato, se è cambiato. È cambiato che ora ci sono delle parole che sono più comuni. Patriarcato, violenza di genere, possesso, cultura dello stupro. Dare un nome alle cose è importante, dà loro una forma riconoscibile

Due anni sono un tempo lungo, oppure passano in un secondo. Scorrono i mesi, le settimane, i giorni, la fretta fa correre. E poi arrivano giornate specifiche che è impossibile ignorare, ti fermi a guardare indietro e il tempo assume forma concreta. Sono passati due anni.
Io me lo ricordo come fosse ieri, dove ero il 18 novembre di due anni fa. Appena fuori l’università, alla fine di una occupazione per la giornata dello studente, dopo un’assemblea. A caricare in macchina le ultime cose, una di noi accende il telefono e legge la notizia. L’hanno trovata. Ricordo come ci siamo guardate, in silenzio, gli occhi lucidi che dicevano «lo sapevamo già» e il groppo in gola che brucia perché non riuscivamo ancora a dirlo ad alta voce quel «basta, mai più. Non la reggiamo più».
Due anni dopo ti guardi indietro e ti chiedi cosa è rimasto. Cosa è cambiato, se è cambiato. È cambiato che ora ci sono delle parole che sono più comuni. Patriarcato, violenza di genere, possesso, cultura dello stupro. Dare un nome alle cose è importante, dà loro una forma riconoscibile.
Scegliere una definizione invece di un’altra non è un fatto di forma: stabilisce il significato di un fenomeno, e in ciò, delinea la strada da cui arriva e anche quella di una risoluzione.
Ora quelle parole trovano posto nel nostro quotidiano, tra i giovani e non solo. Usarle significa riconoscere la responsabilità che deriva dal vederle.
Fa rabbia che siano servite le parole di una sorella piena di dolore nei nostri schermi per conoscere quelle parole, ma fa ancora più rabbia che dopo due anni ci sia ancora chi quelle parole le spegne nel negarle, ridicolizzarle, sminuirle.
Chi, come il ministro Valditara, afferma che associare il fenomeno del femminicidio al patriarcato sia «ideologico»; chi con i fatti taglia milioni sulla prevenzione alla violenza; e chi, più semplicemente, si siede immobile su una certa cultura e decide di lasciarla lì, immutata.
Quando questo accade ciò che rimane è la consapevolezza ancora più netta di un ruolo di vigilanza che spetta a noi – noi donne, noi giovani, noi cittadine – ricoprire: perché sono due anni dal femminicidio di Giulia Cecchettin, ma 17 giorni da quello di Jessica Stapazzolo, 23 da quello di Luciana Ronchi, 29 da quelli di Vanda Venditti e Vasylyeva Olena Georgiyivna. E potrei proseguire, all’infinito all’indietro, per tutti i millenni della nostra storia.
«Per Giulia facciamo un minuto di rumore», ci dicevamo, ce lo ripetiamo ancora. Ma sappiamo che è un gesto minuscolo: volessimo rendere giustizia a tutte le donne uccise, sarebbe un fragore incessante di chiavi al cielo, un rumore che non lascia dormire né respirare.
Il femminicidio di Giulia, della nostra compagna di corso, della ragazza ingegnera che disegnava, l’amica, la sorella, la figlia, è diventato un simbolo.
I simboli sono pericolosi però se diventano ricorrenza. Ci salviamo solo se attraversiamo questa giornata rifiutando l’abitudine: il ricordo vale se diventa una spinta costante a non rassegnarsi, anche quando tutto continua ad accadere.
Per Giulia non fiori una volta l’anno, ma l’urgenza quotidiana di esserci e non mollare la lotta di un centimetro.
Questo sta a noi, a noi sue compagne, a noi che non la conoscevamo ma la sentiamo come noi.
Questo sta a tutte (femminile) e sta a tutti (maschile). Ogni giorno, in ogni spazio contesto e luogo, per non arrivare, tra trecentosessantacinque giorni, a dirci “è già passato un altro anno”.
Riproduzione riservata © il Nord Est









