Chemio in ritardo, a processo i genitori: «Volevamo il meglio per nostro figlio»
Il ragazzino era stato ricoverato a Bologna, i familiari rifiutarono la biopsia e lo portarono in un centro olistico. Sono accusati di omicidio, per la Procura non fecero subito curare il quattordicenne malato di tumore

«Imputati per avere accettato il rischio di non impedire la morte del figlio, che concorrevano a cagionare mediante condotte di incuria, violando o trascurando i loro doveri di genitori». Parole affilate come lame, quelle del pubblico ministero di Vicenza, Paolo Fietta, per chiedere il rinvio a giudizio di L.G., 52 anni e M.B.di 51, residenti a Costabissara, nel Vicentino. Sono i genitori di Francesco, morto a 14 anni, per un tumore alle ossa che avrebbero tardato a far curare. Questa la tesi del pm: giovedì scorso è stata accolta anche dal gup, che ha deciso il rinvio a giudizio di entrambi. L’ipotesi di reato: omicidio, con dolo eventuale.
«Affronteremo il processo e dimostreremo che queste accuse non hanno ragione di esistere» dicono tramite l’avvocato Lino Roetta, «Come ogni genitore, abbiamo voluto solo il meglio per nostro figlio».
Questa tragica storia inizia al principio del 2023, quando Francesco avverte forti dolori a una gamba. La diagnosi arriva a marzo, formalizzata dai medici dell’istituto ortopedico Rizzoli di Bologna: tumore alle ossa.
La descrizione del “dopo” è sintetizzata dall’accusa del pm: i genitori «si opponevano e impedivano pretestuosamente gli urgenti e indifferibili interventi diagnostici e terapeutici di elezione proposti dall’istituto Rizzoli, rifiutando la biopsia ossea e cure tradizionali in grado di trattare il tumore e di garantire, con significativa probabilità, la sopravvivenza a breve/medio termine del ragazzo (...), sottoponendo il minore (...) a inutili e dilatori consulti presso vari medici (...), preferendo, consapevolmente, tenerlo per un periodo, in una condizione di sofferenza e privato di cure adeguate, presso il centro salutistico Valdibrucia di Badia Tedalda, gestito da seguaci di pratiche senza fondamento scientifico (dottrina Hamer), ovvero seguendo i consigli di esponenti di medicina alternativa, non oncologi, alcuni dei quali consigliavano loro non solo di non effettuare neppure la biopsia consigliata dal Rizzoli, ma anche di limitarsi a somministrare al figlio impacchi di argilla e Brufen».
In quella struttura, Francesco rimarrà circa un mese, tra dolori lancinanti e massaggi ai piedi. «Non era lì per curarsi, ma perché qualche medico aveva consigliato la struttura alla famiglia, per migliorare le condizioni fisiche del ragazzo, prima che iniziasse i cicli di cura», precisa l’avvocato.
Francesco torna a casa, e continua a peggiorare. I genitori decidono di riportarlo in ospedale, spiegando i dolori con una banale caduta domestica. Fino a quando i Servizi sociali del paese ricevono una lettera anonima, che li avvisa della situazione. «Purtroppo era già tardi» spiega il sindaco Giovanni Forte. «Ci siamo attivati subito, anche con una fitta rete di volontari. I genitori ci hanno dato le loro spiegazioni. Noi abbiamo provato a dare sollievo a Francesco», dice l’assessora Anna Santon.
Francesco muore il 14 gennaio di un anno fa. Aveva iniziato la chemio. Forse tardi: sarà la Corte d’Assise a dirlo, nel processo che inizierà il 21 ottobre. «Hanno un’accusa enorme sulle spalle, ma non esiste dolore maggiore alla morte di un figlio» dice l’avvocato, «Dimostreremo che tutto quello che hanno fatto è stato solo per il bene del ragazzo».
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