Frane in montagna, l’esperto: «Ecco perché viviamo in un territorio fragile»

Giacchetti, presidente dei geologi del Veneto:«Dentro le nostre Dolomiti nel tempo si sono aperte fratture che causano lo spostamento delle masse rocciose»

Edoardo Di Salvo
Un'immagine degli interventi della frana che ha interdetto la Alemagna, nel comune di San Vito di Cadore, nella prime ore di martedì 1 luglio
Un'immagine degli interventi della frana che ha interdetto la Alemagna, nel comune di San Vito di Cadore, nella prime ore di martedì 1 luglio

Niente aumento delle temperature, fenomeni estremi o altri eventi straordinari. All’origine della fragilità delle Dolomiti bellunesi c’è una caratteristica strettamente naturale, insita nel dna di questi luoghi. «Si tratta – spiega Giorgio Giacchetti, presidente del Consiglio regionale dei geologi del Veneto – di alcune fratture che attraversano il cuore delle montagne – e “muovono” le masse rocciose in superficie, che, a un certo punto, vengono giù e danno luogo alla frana».

Dott. Giacchetti, è questo quello che è successo nella notte di martedì a San Vito di Cadore?

«Sì, il Sorapiss e la Croda Marcora sono tra le vette più interessate da questo fenomeno. Le faglie che in passato si sono aperte nel cuore della montagna hanno lasciato una roccia particolarmente fratturata. Sul Sorapiss l'altezza delle pareti “pesa” parecchio proprio sulla quella roccia poco resistente, rendendo i versanti più deboli».

 

Giorgio Giacchetti, presidente dell'ordine dei Geologi del Veneto
Giorgio Giacchetti, presidente dell'ordine dei Geologi del Veneto

Quindi si tratta di un fenomeno naturale, non causato da eventi estremi come il caldo di questi giorni...

«Non c’è un nesso diretto tra temperature alte e frequenza dei fenomeni franosi. Le Dolomiti sono sempre venute giù, anche prima dell’acutizzarsi del riscaldamento globale. Le variazioni di temperatura influiscono sullo spostamento delle temperature per pochi metri, con variazioni stagionali. Un’ondata di caldo di alcuni giorni non fa in tempo a propagarsi nella roccia e provocare dei cambiamenti alla struttura».

Le frane, dunque, non hanno a che vedere con lo scioglimento dei ghiacci…

«No. O meglio, non in questo caso. È vero che lo scioglimento del permafrost interessa alcune aree alpine specialmente sotto i ghiaioni può essere una delle concause di frane, ma sulle nostre montagne si tratta di un fenomeno molto marginale».

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Oltre al Sorapiss, tra Veneto e Friuli Venezia Giulia ci sono altre montagne in cui si aprono faglie simili e che, dunque, sono particolarmente sensibili alle frane?

«Queste fratture sono frequenti sulle nostre vette, in particolare in alcuni settori della Moiazza e dello Gruppo della Schiara, o nelle dolomiti dell’oltre Piave . Tutta l’area dolomitica è fragile».

Diventerebbe dunque importante cercare di prevenire. È possibile “anticipare” una frana, sapere se e quando si verificherà?

«In astratto sì, ci sono dei segnali ed è possibile interpretarli. Ma, allo stato attuale, i costi di indagini simili sono esorbitanti: per dare un’idea per analizzare un ettaro di terreno potrbbero servire circa 100 mila euro, non è una strada percorribile se si devono analizzare montagne intere. Ci sarebbero altre soluzioni, che comunque incontrano delle difficoltà...»

Quali?

«In quota si possono costruire delle opere di contenimento, così da “bloccare” la frana prima che arrivi. Ma anche queste hanno dei costi elevatissimi. Oppure si può agire in fondovalle che non consiste nell’evitare che la frana cada ma nell’impedire che provochi danni a persone o infrastrutture».

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Ad esempio?

«Costruendo case più robuste che resistano alle frane in analogia a quanto si fa per gli edifici antisismici, proteggendo chi vive all’interno. Chiaramente si pongono problemi di ordine estetico, tecnologico ed economico. Ma possono anche essere realizzati dei cunei che deviano a monte del paese così da impedire che la frana colpisca il centro abitato. In realtà, a fronte di certi problemi, la soluzione più drastica sarebbe delocalizzare, spostare direttamente i paesi stessi, ma è chiaro che questo avrebbe implicazioni socioeconomiche enormi, che non la rendono una prospettiva facile e rapida da attuare».

Quindi, allargando il discorso, dovremmo abituarci a convivere con le frane?

«Sì. Al momento non riusciamo a rimediare a tutto. Bisogna entrare nell’ottica che il concetto il rischio zero non esiste, che possiamo mitigare i pericoli come non eliminarli. Dobbiamo accettare un certo livello di rischio anche per le frane. Al momento questa è la realtà con cui, allo stato attuale, dobbiamo convivere».

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