Frane sulle Dolomiti, il geologo: «Cicli naturali, la montagna deve ritrovare il suo equilibrio»
Il geologo Luca Salti spiega la dinamica naturale delle colate detritiche che stanno interessando la Val Boite, dopo il crollo alla Croda Marcora. «Sono cicli naturali della montagna: vanno gestiti con opere di mitigazione e poi strutturali, come gallerie o viadotti»

«Sono i cicli naturali della montagna. Inutile imprecare. Bisogna conoscerli e saperci convivere. Con le necessarie opere di mitigazione, prima, e poi strutturali». Ne è convinto Luca Salti, geologo che conosce le pareti, i crolli e le colate della Val Boite, ma non solo, come le sue tasche.
Non è facile spiegare a chi deve circumnavigare il Tre Croci, per recarsi da Cortina a San Vito, che questi sono cicli naturali, da mettere in conto.
«Questi fenomeni fanno parte di un ciclo naturale in cui dopo crolli così importanti i ghiaioni devono ritrovare un loro equilibrio: l’effetto di questa evoluzione è appunto un ciclo di vari eventi di colata. Ad Acquabona nel 2016 era successa la stessa cosa (crollo Punta Negra e poi una decina di grosse colate)».
La montagna quanto materiale deve ancora scaricare?
«Probabilmente da 30 ai 40 mila metri cubi, per ritrovare il suo equilibrio».
Dal primo crollo quanto volume di inerti è stato eruttato da Croda Marcora?
«Intorno ai 110 mila metri cubi. Fino ad oggi sulla strada sono finiti circa 70 mila metri cubi, di cui 30 mila proprio nella notte tra sabato e domenica. Il crollo originario, secondo il collega geologo Doglioni, era stato di 50 mila metri cubi».
Sono da mettere in conto altre colate?
«La montagna è alla ricerca di un proprio riequilibrio. Vedi, appunto, Acquabona. O lo stesso Antelao».
Quindi si impone una necessaria convivenza con questo disequilibrio?
«Fino a che, appunto, la montagna non ha riconquistato il suo equilibrio. Ma, attenzione, non significa che nel frattempo si possa rimanere inoperativi».
Che cosa si può fare?
«Esattamente quanto stanno facendo le istituzioni preposte. C’è il primo piano in emergenza (sistemi di allarme, previsioni meteo, monitoraggio, come quello dell’Università di Firenze), la guardiania, il protocollo della Protezione civile, la gestione della strada.
In questa prima fase ricadono le opere di mitigazione da realizzarsi in tempo brevissimo, come l’asporto materiale, lo scavo degli argini deviatori, i valli dissipatori, i sistemi di drenaggio. Queste opere creano dei polmoni di accumulo del materiale mitigando e permettendo una migliore gestione dei tempi di eventuale chiusura».
Le opere strutturali, definitive?
«Saranno poi da progettare opere di carattere definitivo e di tipo strutturale, quali gallerie, viadotti, potenziamento degli attraversamenti con tempi però chiaramente più lunghi».
C’è chi ha qualche dubbio sulla rete di allarme.
«Parla perché non sa. I pluviometri fanno scattare l’allarme con soglie di pioggia minimali. Il radar installato dal professor Casagli è lo strumento più efficace per controllare in tempo reale la deformazione della roccia. Gli accelerometri sono altrettanto importanti. È evidente che, oltre a questa strumentazione, serve la mitigazione del rischio, in attesa però di opere definitive».
Meglio gallerie paramassi, viadotti o tombotti?
«Ogni situazione può avere una soluzione diversa. I tombotti ad Acquabona si sono dimostrati sufficienti. Qui, probabilmente occorre una galleria paramassi».
Troppo lunga e, quindi, troppo costosa?
«C’è anche la possibilità di portare l’Alemagna sul viadotto. Ma bisogna studiare qual è la situazione più efficace e meno dispendiosa».
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